ESCLUSIVA – Capitan Di Lorenzo al CorrSport: “RUDI E TIFOSI TRANQUILLI, NOI SIAMO INSAZIABILI”

«La fascia di Diego è sul mio braccio Sono il capitano di una squadra di ragazzi favolosi Non potrei chiedere di più, sono fiero»

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Il leader (pure quelli silenziosi) son fatti così: agitano la propria coscienza, poi quella altrui e soffiano carezze sulle guance. Senza avere la pretesa di sentirsi Barack Obama, ma avvertendo nell’aria quel venticello caldo di un’autorevolezza strisciante, Giovanni Di Lorenzo sussurrò a bassa voce a se stesso e ai compagni le sensazioni dell’anima: «Yes, we can». Si poteva fare, ma mica per spot: c’era scritto da qualche parte, sarebbe bastato andarsi a leggere dentro, che stava nascendo un’epoca; che in quel momento, proprio mentre intorno i tormenti dominavano Napoli, germogliava un senso rivoluzionario, un calcio come non s’era mai visto. «Ci siamo divertiti, abbiamo divertito, è stato bello. E se chiudi con un vantaggio del genere, vuol dire che non c’è mai stata un’ombra. Lo abbiamo meritato». Da Verona (15 agosto) a Udine (4 maggio) è stata un cavalcata trionfale, un manifesto di quella Grande Bellezza che è appartenuta al Progetto: e non c’è retorica nell’attraversare quei nove mesi, costruiti attraverso le idee diverse e convergenti di De Laurentiis, Spalletti e Giuntoli, e poi germogliate nella maestosità di quel Napoli che Di Lorenzo ha guidato da capitano. «Io con la fascia di Diego, cos’altro aggiungere? Però sia chiaro anche altro: non siamo stanchi di vincere». Piacerà anche a Garcia, il viaggio nel passato di Giovanni Di Lorenzo: un, due e tre, il futuro è adesso.

 

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di lorenzo milan napoli

Lo scudetto con il Napoli, prima ancora l’Europeo con la Nazionale, una Coppa Italia, la promozione dalla B alla A con l’Empoli: tutto questo in cinque anni. Di Lorenzo, ma lei l’avrebbe mai detto? «Io quasi non ci credo, però è successo e mi sono goduto tutto. Ogni tanto mi fermo a pensarci, mi accorgo che non mi sfugge nulla del mio passato. Successi inaspettati, entrambi, dentro manifestazioni diverse, una breve e una lunghissima, estenuante. Ma Italia e Napoli sono stati in grado di imporsi contro chiunque».

Scelga una data della sua vita. «Facciamo due, per cortesia: 11 luglio 2021, finale a Wembley con l’Inghilterra; 4 maggio 2023, Udine, la matematica certezza di aver conquistato il campionato».

È un uomo per la Storia: l’Italia non vinceva il titolo continentale da 53 anni, il Napoli non festeggiava da 33. «E io ci sto dentro, con le emozioni di quei momenti. Me le porterò appresso sino alla vecchiaia, rappresentano il completamento di un percorso fantastico, quasi inimmaginabile».

Il 24 maggio 2017, pare ieri, giocava e segnava in Matera-Cosenza, ultima giornata di serie C. «Viaggiavo in un mondo innaturale, quello dei sogni, ma non sapevo certo che mi sarei ritrovato sommerso di felicità. Ero reduce da un bel tour: la Lucchese, la Reggina, il Cuneo, di nuovo la Reggina. Mica potevo immaginare che da quel pomeriggio sarebbe cominciata questa favola». 

Nel 2015 finì addirittura per essere disoccupato. «Fallisce la Reggina e fummo travolti. Una sensazione di smarrimento, di dolore per quella gente rimasta senza più calcio».

Ora è il capitano del Napoli. «La fascia che è appartenuta a Diego è sul mio braccio. Rappresento compagni semplicemente favolosi e ne sono fiero: di più non potrei chiedere». 

L’investitura o, se vogliamo, la vestizione, appartiene a Spalletti. «Con il quale ho un rapporto di straordinaria umanità. Mi chiama, mi parla e mi dice che l’ha già fatto con il nucleo storico della squadra. Ci incontriamo, ribadisce il concetto e poi osserva e ascolta: furono tutti d’accordo, una condivisione di massa. E qui ci sono calciatori che sono arrivati ben prima di me. Ho scoperto la profondità dell’orgoglio». 

Erano appena andati via Insigne, Mertens e Koulibaly. «E quindi, capirà bene. Fase di transizione, direi persino epocale. Suggellata dallo scudetto. Significa che la società, quindi De Laurentiis, e il management, l’area tecnica, avevano individuato gli eredi giusti, i Kim, i Kvara, i Raspadori, i Simeone, che sommati a quelli che c’erano hanno costruito quel capolavoro».
 
Non vi siete fatti mancare niente: le avete battute tutte. «Un campionato stradominato vuol dire che lo hai meritato. E non penso possa dirsi che siamo stati fortunati: siamo stati i più bravi. Un processo di crescita – tecnico, tattico e mentale – che è stato sublimato in nove mesi. Il salto di qualità è stato nella manifestazione di una maturità nuova, la consapevolezza di avere lo spessore per crederci. Non ci siamo mai accontentati. Non ci siamo mai sentiti sazi. Non abbiamo mai mollato».

La gara in cui avete capito che sareste diventati campioni d’Italia? «Dopo il 2-1 con la Roma al Maradona, vinta in prossimità del 90’. Potevamo accontentarci, fare di calcolo, invece abbiamo voluto quei tre punti e ci siamo ritrovati con l’Inter a tredici. Non erano tantissimi, non erano pochissimi, anche se eravamo alla fine di gennaio. Ma quella sera ci siamo impadroniti del nostro destino, abbiamo scavato un fosso dalla seconda e soprattutto abbiamo lanciato un messaggio pure a noi stessi. Non è un caso se poi il distacco si è ingigantito».

Sorridiamo: partite con sedici punti di vantaggio, tra tre settimane«Ovviamente tutto si azzera, ma sappiamo che chi ha lo scudetto al petto viene considerato la squadra favorita. E forse è giusto così. Il mercato è aperto, le altre si rinforzeranno, i giochini dei pronostici non mi appassionano e non li faccio, ma noi siamo quelli di due mesi fa: abbiamo fame, sapremo resettare ciò ch’è stato e calarci nella nuova dimensione. Abbiamo festeggiato il giusto e però adesso si ricomincia». 
 
Campionato o Champions?  «E perché non tutti e due? La nostra garanzia è la mentalità, un patrimonio che ci portiamo appresso e che ingigantisce la qualità del gruppo. E allora, confermo: tutti e due. Ce le andremo a giocare, poi si vedrà. E poi, gli effetti di questo trionfo sono qua: Dimaro e Castel di Sangro prese d’assedio; l’allegria dei nostri tifosi che ci coprono del loro amore. Una cosa posso garantirla: di vincere nessuno si è mai stancato, men che meno noi. ».
 
La sfida da ripetere. «Vorrei rigiocare la partita con il Milan, l’andata o il ritorno di Champions, o semmai tutte e due. Le decisero gli episodi, i dettagli, il caso, anche il momento. Ma fu una delusione. E lo dico con il rispetto che si deve ad un’avversaria di assoluto valore».

Quella che le passa spesso per la testa? «Tutte, nessuna esclusa. Ma il debutto in Champions League, con il Liverpool, ha un suo perché: affrontavamo uno dei club più prestigiosi del calcio internazionale, ricco di talenti. Fu una specie di serata perfetta, nella quale cogliemmo la bontà del nostro gioco. Ho il sospetto che quello sia stato il primo passaggio decisivo per aiutarci a capire quali fossero le potenzialità del Napoli».

Un calciatore che vorrebbe evitare? «Visto che Kvara e Osi stanno con noi, non ho particolari preoccupazioni. Ci sono tanti giocatori che vanno ritenuti pericolosi, alcuni anche molto, ma non si può avere la pretesa di fermarli tutti. Ma nel Napoli c’è una varietà di punte – da Raspadori a Simeone, da Lozano, Politano e Zerbin – che aggiunti a Osi e Kvara fanno di noi una signora squadra». 

Così buono, così bravo, così perfetto: ma questo Di Lorenzo ce lo avrà un difetto? 
«Non fatemi passare per quel che non sono. Ho i miei limiti e li tengo per me. E però sono comunque uno tutto campo e famiglia: quando non gioco, e qui si sta sempre a giocare, non chiedo altro che stare con moglie e figlie». 

Ha aggiunto un altro tatuaggio alla serie. «Lo scudetto, sul polpaccio destro». 

Cosa chiedere ancora al calcio? «Ho cinque anni di contratto più uno con il Napoli, mica posso ritenermi completamente appagato. C’è sempre un sogno da realizzare e restare a questi livell, tra le grandi in Italia e in Europa, rientra nelle mie, nelle nostre ambizioni. E migliorarsi ulteriormente è un desiderio da assecondare». 

Lei ricorda che sta per compiere 30 anni? Venerdì. Auguri.  «Ma per la vecchiaia c’è tempo e il ruolo si è evoluto. Sono entrato in una parte inedita, con l’aiuto di Spalletti al quale devo tanto, perché mi ha aperto un mondo, ha fatto di me altro. Ho sempre avuto un gran rapporto con i tecnici ed è così pure con Garcia, con il quale l’intesa è scattata immediata». 

Ha giocato (quasi) ovunque, resta sulla fascia? «Non ho motivo per farmi dirottare altrove». 

E pensare che la chiamavano Batigol. «Ma questa è una leggenda metropolitana. Accadde nella culla, forse ero adolescente».
Molto prima della serata in cui vide in tv Napoli-Borussia Dortmund, 2013? «Sììì. Avevo vent’anni, quella notte. Giocavo a Reggio Calabria. Divoravo le partite della Champions, ignaro che sarebbe toccata anche a me. E che in quello stadio, il 4 giugno, avrei alzato al cielo la coppa che ricevono i campioni d’Italia». 

Hamsik ha 520 presenze, lei sta a 184…Prenderlo non è semplice. «Ci vogliono sette anni con una media di 50 partite a stagioni…..Le carriere si sono allungate». 

 

Fonte: CdS

 

 

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