Il Baronetto di Posillipo svela tanti retroscena: “Perchè ho rinunciato alla serie A e ad uno scudetto”
«Venite qui che vi racconto una storia», lo ha detto (e fatto) decine di volte Gianni Improta. «Vi racconto la storia del Baronetto di Posillipo». La voce narrante è la sua, il pubblico all’ascolto è composto dai due nipotini: Giovanni e Giorgia. La storia in questione ha sempre un lieto fine, perché il percorso umano e professionale di Gianni Improta è stato degno di quel soprannome così prestigioso: il Baronetto di Posillipo.
Iniziamo dal Napoli e dalla sua avventura con la maglia azzurra. «Napoli è la mia città e difenderla da calciatore, scorrazzando in mezzo al campo. è stata una sensazione unica. Ti senti coinvolto, responsabile nel difendere la passione della città, di un popolo che ha sempre dimostrato il proprio attaccamento verso il calcio. È stata una cosa stupenda. Anche perché ho portato anche la fascia da capitano».
Il ricordo più bello? «La famosa partita contro la Fiorentina, quando fui protagonista con una tripletta con il giallo».
Ovvero? «All’epoca mi assegnarono solo due gol per una leggera deviazione sul terzo tiro. Oggi sarebbe stata tripletta senza discussioni. Ma quella partita fu speciale perché all’indomani della gara non si parlava che di me. E alla ripresa degli allenamenti fui tremendamente rimproverato da Beppe Chiappella, il nostro allenatore. Lo fece davanti a tutti, disse “ora non ti montare la testa con questa tripletta”. Lo fece perché sapeva che in quella squadra di star, da Zoff a Juliano, quel mio successo personale aveva dato un po’ fastidio. Con il tempo capii che volle far finta di rimproverarmi per mantenere gli equilibri all’interno dello spogliatoio».
Quando era all’apice della carriera, però, scelse di andare a giocare in serie B con l’Avellino. «Fu un’esperienza bellissima sotto tutti i punti di vista. Ma soprattutto fu una scelta d’amore».
D’amore? «Il Napoli mi aveva venduto l’anno prima alla Sampdoria a sorpresa. Praticamente qualche giorno dopo il mio matrimonio con Maria».
Ma come? «Eh sì, fu un bel regalo che mi fece la società e che di fatto mi lasciò senza parole. Non volevo staccarmi da Napoli, anche perché mi ero appena sposato e la lontananza mi avrebbe fatto stare male. Così dopo appena un anno non felicissimo alla Samp scelsi volutamente di avvicinarmi a casa, seppur andando a giocare in serie B».
E come andò? «Una bellissima avventura. Quando smettevo gli allenamenti, giocavo nel campetto di Cosimo Sibilia, che era il figlio del presidente dell’Avellino e allora era un ragazzino. Mi consideravano uno di famiglia. E poi ricordo che mia figlia Titti aveva appena un anno: abitavamo a Mercogliano e lei respirava un’aria bellissima che la faceva crescere in maniera esponenziale».
Avellino unica scelta d’amore? «No, nella stagione 79-80 rifiutai l’Inter per tornare a Napoli e stare vicino ai miei familiari. Proprio quell’anno l’Inter vinse lo scudetto. Al mio posto presero Mimmo Caso che adattarono a centrocampo».
Adesso si è dato anche alla musica… «È vero, con il maestro Enzo Di Domenico abbiamo scritto “M’arricordo”, una canzone dedicata alla mia infanzia, a quando sono diventato orfano, e al Napoli. In un incontro televisivo mi disse “voglio fare una cosa per te”, ma io gli dissi che sono stonato. Poi gli ho raccontato la mia storia tra calcio e vita privata ed è nato tutto».
Come ha festeggiato il terzo scudetto del Napoli? «A casa, tranquillo e sereno. Anche perché avevo pronosticato questo successo con largo anticipo: in cuor mio lo sapevo che sarebbe arrivato».
Dei primi due che ricordo ha? «Il rapporto con Maradona: rispetto reciproco e stima. Capì che aveva a che fare con una persona che lo accoglieva ma senza interessi. Era sempre ad allenarsi sui campi del Virgilio con il suo preparatore Signorini. E all’epoca sono stato il primo a sapere che aspettava un figlio dalla Sinagra, ma seppi mantenere il segreto».
Fonte: Il Mattino