L’intervista – Alemao a Il Mattino: “Simbolo di questo scudetto? Per me ci sono pochi dubbi: Osimhen”

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Ricardo Rogério de Brito, detto Alemão, calciatore brasiliano nel Napoli dello scudetto azzurro del ’90, ha parlato in un’intervista a Il Mattino.

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«Le feste per la Coppa Uefa e per lo scudetto furono interminabili, simile alle scene che io fino a quel momento avevo vissuto solo nel Carnevale di Rio. E quelle che ho visto in queste ore sono simili a quella gioia. Eravamo una grande squadra, mai avremmo pensato che sarebbero trascorsi altri 33 anni prima che Napoli potesse rivivere una simile notte». Alemao è in Brasile. Nel 1990 era una delle tre stelle straniere di quel Napoli tricolore. Per tutti, Alemao è l’uomo della monetina di Bergamo. Per i milanisti, Sacchi e Van Basten, l’episodio che ha condizionato la volata per il titolo. Per il mondo azzurro, solo accuse senza senso. «È una gioia per me questo scudetto. Lo è perché i tifosi del Napoli sono felici e si meritano di vivere questi momenti magici. C’è sempre stato un amore vero tra i tifosi e la squadra, un rapporto che noi abbiamo sempre avvertito come straordinario, anche quando non vincevamo». È una delle stelle dell’ultimo campionato vinto dagli azzurri, nel 1990. Una vita fa. «Quello fu lo scudetto dei veleni e dei rancori». Ricorsi e polemiche che ancora adesso si trascinano nel fiume di rabbia degli sconfitti.
Alemao, finalmente quello di 33 anni fa non è l’ultimo scudetto del Napoli?
«Era ora, noi pensavamo che quel ciclo sarebbe continuato ancora per molto tempo, eravamo un grande gruppo e vincemmo in una serie A dove c’erano davvero i più forti al mondo a giocare ogni domenica. Mai nessuno di noi, pensava che per vincere il terzo scudetto sarebbero passati tutti questi decenni».
Perché, secondo lei?
«L’anno dopo quel Napoli arrivò a un passo dalla vittoria della Coppa dei Campioni. Noi abbiamo sempre pensato che se avessimo superato il turno a Mosca, alla fine saremmo arrivati in cima all’Europa. Poi andò via Maradona e provammo a riprendere il cammino dei successi. Ma senza Diego cambiò ogni cosa».
Chi è il simbolo di questo titolo?
«Per me ci sono pochi dubbi: Osimhen. Mi è sembrato davvero devastante, capace come pochi di fare la differenza nel campionato italiano. È difficile ormai trovare dei campioni che da soli possono vincere le partite e devo dire che lui è uno di quelli che sa come si fa».
È colpito dal fatto che questa squadra, a parte Juan Jesus, non abbia brasiliani?
«No, non lo sono. Perché dopo il 1996, con l’apertura agli stranieri senza limiti, i grandi campionati hanno scoperto certi Paesi che prima erano considerati non all’altezza. Kvara, per esempio, è un altro di quelli che quando ha la palla al piede sembra un talento brasiliano. Invece viene dalla Georgia. È il calcio che va così e non è detto che sia una cosa brutta: anzi, il calcio davvero appartiene a tutti».
Che Napoli è stato?
«Spettacolare, sempre protagonista: le idee di Spalletti hanno sempre avuto il sopravvento. Ogni volta che ho visto giocare il Napoli, ho ammirato al personalità con cui si muovevano in campo tutti. Non è facile giocare così bene, vuol dire aver lavorato tanto».
Un dominio che è cosa rara?
«Ai miei tempi, impossibile arrivare primi con un mese di anticipo. Noi vincemmo all’ultima giornata. C’erano Inter, Milan, Juventus, Sampdoria, Roma ed era davvero il campionato più bello del mondo. Ora mi sembra che non ci sia mai stato qualcuno veramente all’altezza degli azzurri. E confesso che mi è dispiaciuto che non siano arrivati almeno in finale di Champions, lo avrebbero meritato».
Molti big hanno offerte di mercato, che farebbe?
«Spero restino tutti, i cicli si fanno confermando quelli forti e tenendo gli allenatori».
Lo scudetto della monetina è finalmente un ricordo?
«Ho odiato quella monetina, tutti parlano di me solo per quella cosa. Fui colpito, caddi a terra. I regolamenti erano chiari. E quel Napoli era più forte e avrebbe vinto lo stesso il campionato, anche senza i due punti a tavolino».
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