L’intervista a Ottavio Bianchi: “Un Napoli da amare. Bellissimo, quasi invincibile”
La prima volta, ed accadde in quell’altro calcio, pare quasi in quell’altra vita, fu delirio di massa: Napoli non aveva mai visto uno scudetto, non ce l’aveva mai avuto tutto e solo per sé, e il 10 maggio dell’87, uscendo dal campo, nella sua tuta d’ordinanza, con la sua maschera che tradiva un sorriso, disse appena: «Sono soddisfatto, abbiamo fatto un buon lavoro, sono due anni che facciamo sacrifici. Sono sessant’anni che qua non si vince e quindi immaginate la pressione a cui siamo sottoposti». Ora che se ne sono andati altri trentasei anni da quell’impresa storica e trentatré dal secondo trionfo, Ottavio Bianchi – pur restando elegantemente se stesso – guarda Napoli, evita di accostarlo al passato, e si lascia compostamente andare all’elogio dei successori, Spalletti in testa, che forse in qualcosa gli somiglia, nei silenzi e in quella ricerca di un isolamento non per starsene da solo, ma per costruire il Sogno.
Ottavio Bianchi è il padre del primo scudetto, cosa direbbe a Luciano Spalletti, il genitore del terzo?
«Bisogna semplicemente fargli i complimenti ma non banalmente: bisogna dirgli bravo, bravo, bravo per avere creato un modello di calcio. Una squadra che ha offerto di sé, spesso e non solo in campionato, la sensazione che fosse invincibile. Contro il Liverpool, contro l’Ajax, contro l’Eintracht sono state gare di elevatissimo contenuto tecnico, come è accaduto in moltissime sfide qua in Italia. Ci sono state gare nelle quali restavi incantato perché il Napoli pareva non avesse punti deboli».
Il Napoli perfetto.
«Bello, anzi bellissimo. Un’autorevolezza e una autorità da scatenare l’ammirazione. Un titolo stravinto da un sacco di tempo, non siamo neanche in grado di stabilire da quanto, perché in realtà non c’è mai stata lotta, almeno da gennaio in poi, da quando il Napoli ha fatto il vuoto. Ed è stata una stagione pazzesca».
Cosa l’ha colpito?
«L’impossibilità di stabilire un peggiore, ammesso ce ne sia mai stato uno. Un Napoli che ha offerto un’immagine di sé forte e sicura, dentro una qualità altissima di calcio, tra prestazioni individuali e collettive che esaltavano il concetto di squadra. Il merito straordinario di Spalletti, semmai bisogna scegliere tra i tanti, è in quella espressione gioiosa».
Venticinque giocatori che non la spingono a far classifiche.
«Non si può, né si deve. La vittoria sulla Juventus è la sintesi di una mentalità nuova, forse anche figlia di questo calcio che con cinque sostituzioni offre all’allenatore la possibilità di intervenire in maniera massiccia. Spalletti l’ha sfruttata subito, sin da quando è tornato in panchina, e l’ha cavalcata ottenendo benefici come a Torino: giocata di Zielinski, appoggio largo su Elmas, traversone a cercare Raspadori che segna. Erano entrati tutti a partita in corso, chi a metà della ripresa e chi nel finale, e chiunque ha dato il proprio contributo».
Le è piaciuto, quindi, il Napoli in campo e quello fuori…
«Mai, durante i cambi, un cenno di fastidio, eventuali tracce di delusione per una sostituzione. C’è un lavoro dietro tutto ciò, ci sono principi che vengono trasmessi dall’allenatore ma anche la consistenza dell’ambiente sano, in cui la società – cioè De Laurentiis – ci ha messo del suo, il direttore sportivo – cioè Giuntoli – ci ha messo del suo e i giocatori – cioè tutti – ci hanno messo del loro».
Lei si lanciò sul primo scudetto dell’87 a Torino, dove il Napoli ha messo la ceralacca al terzo.
«Lei sa che è difficile, anzi impossibile, scendere in paragoni, non lo consentono i tempi, le diversità di questo calcio da quello. Trentasei anni di distanza rappresentano ere diverse. Però di analogo c’è la statura del successo, ottenuto contro un avversario che appartiene all’establishment».
Quando nasce il trionfo del Napoli?
«Molto più in là di questa stagione, direi nel 2004, dall’arrivo di De Laurentiis. Dalla profondità del progetto. Quest’anno si è compiuto un capolavoro, se penso a Kvara e a Kim, alla capacità di andarli a scovare e di crederci, perché mica era semplice; dal coraggio di rivoluzionare l’organico, perdendo giocatori divenuti simbolo di un periodo lungo. Ma le radici sono nelle idee della proprietà, che da ormai quindici anni o poco meno va in Europa, e che varie volte è andato vicino allo scudetto. Se frequenti il Grande Calcio con questa continuità, vuol dire che a guidarti lì è stata la competenza».
Quando si dice l’humus o la cultura?
«Io osservo con l’occhio del lavoratore di campo e prendo atto che è stata costruita una base tecnica di assoluto livello. È vero tutto ciò che ci siamo appena detti, e cioè il mercato e le intuizioni, ma gli otto o i nove undicesimi dei titolari appartengono al passato, sono acquisti sparsi nel decennio: Zielinski prima di Rrahmani e di Anguissa, Lobotka e Meret, Politano e Lozano, Osimhen e Mario Rui e aggiunga lei tutti gli altri. Nel calcio, direi nella vita, non ci si inventa dalla sera al mattino, c’è bisogno di stagioni per riuscire a fondere le varie nature. Poi ti capita un periodaccio, diciamo venti giorni maledetti, e qualcosa salta».
Il riferimento, non casuale, è alla Champions e alla eliminazione.
«Non toglie nulla al Napoli, né mi permetto di mettere in discussione la qualificazione del Milan. Ma proprio ad aprile, dopo le soste, Spalletti ha dovuto confrontarsi con una serie di infortuni e di impedimenti che qualcosa gli hanno tolto. Nessuno sa come sarebbe andata a finire se ci fosse stato Osimhen all’andata. E comunque pure questo è il calcio, noi lo sappiamo bene. Che adesso si gioca su ritmi talvolta insostenibili. Se ti ritrovi con un microtrauma a inizio stagione, può darsi che in tre giorni tu riesca ad assorbirlo; ma se lo stesso microtrauma te lo procuri dopo sei mesi, allora di giorni potrebbero servirtene una quindicina. Certi problemi fisici hanno inciso. E poi nelle sfide dentro o fuori bisogna aggiungere anche altri fattori, l’imprevedibilità, il dettaglio, la statura dell’avversario e la sua esperienza. Io penso che il Real Madrid e il Manchester City abbiano tirato un bel sospirone di sollievo nel momenti in cui il Napoli è uscito: perché una che gioca in quel modo è una preoccupazione e sapere che non la incontrerai è una preoccupazione in meno».
Lo scudetto appartiene a tutti.
«Il Napoli ha esaltato il suo calcio, nelle sue fasi sempre attive, anche sui palloni persi o quando il possesso era degli altri. Mai un calciatore fermo, mai uno. Le catene che partecipavano per occupare lo spazio. Un lavoro stupendo che appartiene all’allenatore ma anche ai calciatori, ci mancherebbe. E, come sostengo da sempre, eredità di una mentalità che sta nel club».
È stato tutto facile o è stato reso tutto semplice dal Napoli? «Gli avversari sono spariti, un po’ alla volta. Hanno perso convinzione, forse perché si sono resi conto che era impossibile competere con quel Napoli o magari semplicemente perché non ce l’avevano. Ma si sono ridimensionati tutti, non lo dico io ma lo sostiene la classifica: la Lazio a diciassette punti, poi le altre più lontane, invisibili».
Bianchi crede nel ciclo Napoli?
«Speriamo. Stavolta si può. Si respira l’aria buona, le condizioni sono quelle create da De Laurentiis, da Giuntoli, da Spalletti, da una base che è di primissimo piano. C’è stato un progressivo innalzamento della soglia tecnica, con calciatori come Osimhen, come Kvara, come Kim e ci sarebbe da citarli tutti. Esiste una filosofia societaria che è la madre di questa affermazione così netta, limpida, indiscutibile , direi aritmeticamente bulgara».
Lei conosce la città quasi quanto casa sua, c’è stato in vari momenti della sua esistenza e può capire: il Napoli, domenica sera, è stato accolto da diecimila tifosi a Capodichino, già a dirlo sembrano scene di straordinaria (e comprensibile) follia.
«Ma è giusto impazzire. È inevitabile innamorarsi di una squadra del genere».
Fonte: Cds