Il campano Emilio De Leo (Collab. Miha): “Per lui eravamo e ci faceva sentire invincibili”
Nella cameretta che aveva nella casa a Cava de’ Tirreni c’è ancora un giovanissimo Emilio De Leo con gli occhiali da sole e una polo rossa. Accanto a lui quello che all’epoca era uno dei suoi idoli: Sinisa Mihajlovic. «Era il 1998 e avevo praticamente pilotato un viaggio di famiglia in Trentino per essere nella posizione strategica tra i ritiri di Roma, Lazio e Venezia», la voce è quella dell’uomo che negli ultimi 10 anni è stato il più stretto collaboratore di Mihajlovic e che ne ha imparato a conoscere vizi, virtù, pregi e qualità dell’allenatore scomparso a dicembre per una grave forma di leucemia.
E quella foto?
«Non ho mai avuto il coraggio di fargliela vedere».
Perché?
«Un po’ per pudore, un po’ per timidezza. Stavo cercando di affermarmi come collega e volevo scrollarmi da dosso l’etichetta del ragazzino. Di sicuro mi avrebbe preso in giro. Eppure…»
Eppure?
«Oggi mi dispiace non avergliela mai mostrata».
Tasto rewind, riavvolgiamo il nastro. Come è nata la sua collaborazione con Mihajlovic?
«A metà degli anni 2000 avevo contattato Fausto Salsano, cavese come me, che era collaboratore di Mancini. Gli inviavo un po’ di materiale tattico e un giorno mi ha chiamato: Sinisa era stato interpellato dal Bologna nel 2008 e Fausto mi chiese di aiutare a distanza il suo amico».
In che modo?
«Inviavo delle mail al preparatore atletico del Bologna Antonio Bovenzi che stampava e girava a Sinisa. Poi per due stagioni nessun contatto».
E allora?
«Prima di accettare la chiamata dalla Serbia ha chiesto di me a Fausto Salsano, perché io e lui non avevamo mai parlato. E così sono andato a Roma».
Quell’incontro?
«Lo ricordo come se fosse oggi. Era inverno, si moriva di freddo, eppure lui indossava pantaloncini corti ed era a piedi nudi. Siamo stati un pomeriggio intero sul quel divanone con la vista sull’Olimpico. Più lo sentivo parlare e più pensavo qui la situazione la vedo dura».
Poi è iniziata la vostra avventura insieme, dal 2012 all’ultimo esonero con il Bologna a settembre 2022. L’insegnamento più grande?
«Era un carro armato, un fuoriclasse nel trasmettere fiducia e coraggio. Ti infondeva la voglia di raggiungere l’obiettivo. Sapevi che con lui potevi affrontare qualunque avversario senza paura. Ti faceva sentire imbattibile: la squadra si trasformava».
Dall’esterno dava l’idea di essere un burbero…
«In realtà il meglio lo tirava fuori quando era calmo e ti diceva: Io ci metto la faccia, devono prendersela con me, voi siete più forti. Aveva un carisma incredibile. Credeva in quello che diceva. Era sincero».
Salto veloce in avanti, al 2019, quando arrivò la notizia della malattia.
«Partiamo per il ritiro estivo col Bologna e lui sul pullman non c’è. Ha la febbre, ci dicono. Cosa strana perché una febbre non lo aveva mai fermato. Nessuno sapeva nulla. Una notte ci arriva un messaggio del direttore sportivo Bigon nel quale ci dice che la situazione era grave. L’indomani Sinisa ci ha riunito in albergo e ci dice tutto in una videochiamata».
E voi?
«È stato uno choc. Pur volendo come sempre apparire forte e determinato, anche lui era commosso. Un momento emotivamente coinvolgente. Ma il sangue ci si è gelato a Verona quando lo abbiamo rivisto dopo quella videochiamata alla prima di campionato. Nessuno si aspettava che venisse e l’impatto è stato fortissimo: era irriconoscibile».
L’ultimo contatto tra voi?
«Quando mi ha comunicato l’esonero dal Bologna».
Ma poi sono passati dei mesi…
«Sono andato a Roma appena ho saputo che la situazione si era aggravata. Era in coma e dormiva. In ospedale c’era tutta la famiglia. Gli ho dato un bacio e gli ho tenuto la mano. Spero gli si sia arrivata una vibrazione».
Le parole che non gli ha detto?
«Credo nessuna».
Perché?
«Tante mie frustrazioni gliele ho espresse. Una volta gli ho dato un diario. La prima parte tecnica ma e una seconda più personale. Il mio stato emotivo, si chiamava così. A lui piaceva parlare a quattro occhi. Lo faceva con i figli e lo faceva con tutti».
Fonte: Il Mattino