Con profondo fremito attendevamo, sin dal mattino, l’inizio di una trasmissione radiofonica
“Tutto il calcio minuto per minuto”, i miei numerosi fratelli ed io. Le nostre sorelle ci schernivano, punzecchiavano, ci sfottevano proprio con le offese più ridicole per il solo fatto d’essere tifosi, ma c’invidiavano. Maria ed Ersilia, in ordine decrescente d’età, invidiavano l’ansia domenicale che tenevamo per il Napoli, che consolidava ancora di più la nostra complicità. Le donne, compresa nostra madre, pulivano casa più a fondo, la domenica mattina. Le canzoni della radio, a tutto volume ,rendevano loro le faccende meno noiose. Poi, di pomeriggio, il possesso esclusivo della radio passava nelle nostre mani. Io, il più piccolo, non subivo molte critiche, perché a scuola promettevo bene e perché ero, l’unico della famiglia – in quel periodo – a stare in collegio. L’attesa, dicevo, si riempiva di una tensione del tutto peculiare, fra desiderio e paura: due facce di una stessa medaglia. Da una parte, ribollivamo per il desiderio di sentire, dalla viva voce di Enrico Ameri, che il Napoli fosse in vantaggio; dall’altra, la paura di avere a che fare con una realtà avversa, per quanto prevedibile.
Anticipavamo la rubrica sportiva imitando la rinomata, rauca, voce di Sandro Ciotti: “Scusa Ameri, scusa Ameri…: Napoli in vantaggio…”. Lo era sempre, almeno per gioco. Il migliore imitatore era Massimo. Era un vero e proprio rituale propiziatorio! Quella domenica Massimo, Ottavio ed io, decidemmo di andare a giocare a pallone e “soffrire” a Villa Pamphili. Il cielo, annuvolato, non ci scoraggiò; il clima era ideale per disputare una bella partita. Ce la facemmo a piedi da casa (Via Bravetta) correndo a turno dietro al pallone fino alla Villa, distante alcuni chilometri. Eravamo i padroni della strada. Era il nostro infinito campo di calcio, la strada.
Ogni tanto i doppioni delle figurine, scivolavano dalla tasca del pantaloncino e mi obbligavano ad interrompere la corsa, a far attendere i miei due fratelli, che non protestarono più di tanto. Superammo il “Buon Pastore”; arrivammo al cinema “Ara Pacis” senza affanno, senza rendercene conto. Solo il pallone di cuoio ci precedeva, sempre.
(Di fronte alla sala parrocchiale, c’era il “Bar Gagliardi”: lì ci lavoravano altri tre dei miei fratelli: Gennaro, che preferiva farsi chiamare Rino, tifoso moderato; Armando, tifoso esagitato, e Ugo, che era un po’ Armando e un po’ Rino). Evitammo di salutarli per non arrivare tardi all’”appuntamento”.
Puntammo diritti verso il “campo”, la Villa. Non portammo la radio nonostante il consolidato diritto di possesso, infatti, eravamo sicuri di trovarne a decine, e già in funzione. In quegli anni, la diretta iniziava con i “Secondi Tempi”: la suspence si faceva ancora più densa.
I calciatori portavano le divise con i colori sociali tradizionali, ed erano prive di cognome stampato sulle spalle: in quel periodo si riconoscevano anche da dietro senza la scritta, i giocatori. I numeri, prima, suggerivano un preciso ruolo; le maglie non erano sfregiate dal logo delle sponsor; prima, la casacca identificava una specifica squadra… E le partite si giocavano la domenica, al medesimo orario. Oggi il calcio è frammentato, sfigurato, smembrato, eccessivamente somigliante alla società contemporanea.
Il pallone adesso rotolava oltre il bivio di “Via della Pisana”. All’angolo si ergeva un’edicola tutta verde accanto ad un piccolo “Caffè” frequentato da nostro padre: ci passava il tempo libero giocando a carte, a condizione che non vi fossero ospiti a casa, con i quali giocarci.
Così arrivò il mio turno a lanciare la palla a Massimo, che scattò come una saetta, uno sprint degno di una vera “ala pura”. Io e i miei fratelli lo sfottevamo chiamandolo “Cavallo Pazzo”. Era bravo, correva come un forsennato, ma dribblava troppo, non passava mai la palla. Calciava di sinistro, come Gigi Riva.
Ora era la volta di Ottavio a sganciarsi. Raggiunse la palla e poi fu lui a lanciarmela in modo impreciso: un classico! (sfoggiava caparbietà agonistica, ma anche “piedi duri”, poca tecnica). Dal canto mio feci il solito scatto. Sembrava che io fossi dotato di talento naturale. Ero timidamente orgoglioso, perché giocavo con i più grandi e, in collegio, ero sempre tra i primi ad essere scelto. Desideravo, come tutti gli scugnizzi partenopei, di giocare con il Napoli (figuriamoci, anche gratis). Quando toccavo la palla a centrocampo, diventavo Juliano; quando mi capitava di fare il portiere, emulavo Dino Zoff: paravo tuffandomi proprio come lui, con la stessa “serietà”. Giungemmo finalmente alla Villa, litigando per chi avrebbe dovuto portare il pallone con le mani, finché non avremmo trovato un posto adatto per giocarci. Entrando, ci guardammo attorno. Non c’era l’atteso pienone. Solo i fedelissimi del pic-nic pasquale sfidarono la minacciosa, ostinata presenza delle nuvole; tutti però avevano una radiolina accesa. Mi sfugge chi di noi raccolse la sfera. Dopo un’attenta perlustrazione, occupammo un’area abbastanza estesa per giocarci, poi ci accostammo ad un piccolo gruppo di persone che erano nei paraggi. Era disposto curiosamente a cerchio mentre la radio, come una sorta di totem, stava lì, al centro. Giungemmo in perfetta coincidenza con la sigla d’apertura. “La Stock di Trieste v’invita all’ascolto di: Tutto il calcio minuto per minuto”… Chiedemmo alla comitiva di farvi parte. Noi tre trasmettevamo una certa sofferenza o meglio, una condizione d’apprensione mista ad una sottile sfumatura di piacere. Una sensazione sadomasochista. Finalmente l’inconfondibile timbro di voce di Enrico Ameri annunciava dal campo principale il risultato del primo tempo: a S. Siro, Inter zero e Napoli uno. Gol di Altafini su respinta di Bordon al minuto…”, pronunciò distintamente la voce del radiocronista. Non trattenemmo la gioia di esultare, sebbene la parte più autentica di quell’effimera, profonda euforia rimase inespressa sotto la nostra pelle. Soddisfatti, ci apprestammo a dare i primi calci, incominciando a “passaggi”. Contagiammo gli occasionali spettatori; così potemmo formare due squadre di quattro giocatori. Ci muovemmo con destrezza; riuscivamo ad eseguire le giocate più raffinate. Giocavamo tendendo entrambe le orecchie alla radiolina. Ad un tratto irruppe con tono concitato Enrico Ameri, e all’istante fermammo la nostra partita. “Rigore, rigore a favore dell’Inter…, rigore molto contestato dai giocatori napoletani…. Zoff, di solito molto composto, si lascia andare a un atteggiamento di stizza…”, annunciava nervosamente Ameri. Inutile dire che io, Massimo e Ottavio pregammo in religioso silenzio che lo sbagliassero quel rgore!. Ma non fu così, purtroppo. Ci assalì un fastidioso scoramento per la beffa e il danno ricevuto. I miei fratelli continuavano ad inveire contro Gonnella, il signor arbitro che decretò l’ingiusto rigore. Entrambi formularono supposizioni geopolitiche. Ed io sentivo di appartenere ad una squadra discriminata, sebbene la natura di tifoso conosca solo il “principio del piacere”. Noi eravamo tifosi, e anche accaniti.
Gli effetti si manifestarono nel nostro rendimento: Massimo e Ottavio giocarono “distrattamente”, controvoglia. Vivevano l’aria di “S. Siro”, dove si era consumato l’iniquo pareggio. Ma potevamo contare ancora su tre gol di vantaggio. Profusi la tanta rabbia nel gioco, trasformandola in intenso sfogo agonistico. I nostri avversari accorciarono le distanze, avendo noi scelleratamente consentito di farci due reti. I nostri avversari si erano ormai rianimati. Centrammo quindi la palla. Ottavio scagliò il pallone sulla linea di destra, io la fermai con uno stop a seguire e attesi che il difensore venisse contro; con il busto mi spostai verso la mia sinistra mentre feci schizzare la palla al lato opposto. Superato l’avversario, prolungai freneticamente la corsa sulla (immaginaria) linea laterale; alzai la testa, per verificare la posizione dei miei compagni e quindi crossai verso Massimo, che attendeva il pallone sul secondo palo. La sfera, tesa, colpita violentemente al volo con un tiro mancino, si stampò sul secondo palo (in realtà un tronco d’albero). La palla rimbalzò quindi sul mio piede: un tocco “morbido” da sotto tratteggiò un preciso pallonetto. “Gol!!”, esclamai con un pizzico di rabbia. Per ascoltare nuovamente la radio, sospendemmo il gioco.
Noi tre speravamo sempre che la squadra ripassasse in vantaggio; Juliano e compagni avevano soverchiato gli avversari in lungo e in largo tutto il “Primo Tempo”, non raccogliendo in modo proporzionato alle energie profuse, i frutti sperati, da noi profondamente desiderati. La squadra aveva “speso” troppo, inutilmente. Non arrivando al gol, temevamo allora di incassarlo (per la dura regola del “gol fallito gol subito”). Stavolta l’ansia esprimeva la paura di perdere. La coinvolgente radiocronaca di Ameri non ci dette scampo. Era Boninsegna la causa della nostra abissale frustrazione. Il centravanti, con un’audace quanto folle incornata, rischiando di prendere in pieno volto una “pedata” da Panzanato, realizzò la rete. Sulle nostre facce calò una fitta, densa e nera desolazione. Ci sentimmo defraudati per l’ennesima volta. Il gruppo che ci ospitò comprese per intero la nostra amarezza e ci confortò rilevando la maligna interferenza arbitrale, ma ciò non alleggerì il malumore.
Tornammo mestamente a giocare la seconda parte della partita, anche se io avrei voluto lasciare per vedere in televisione “Novantesimo minuto”, rubrica sportiva condotta dall’indimenticabile Maurizio Barendson (e poi da Paolo Valenti). Aderivo, in linea di massima, al ragionamento vittimistico dei miei fratelli, però mi riservavo di verificare, alla moviola, la decisione arbitrale. Lo sconforto sarebbe stato quasi drammatico se fossi rimasto lì, in collegio, nel campo vuoto…
A cura di Maurizio Santopietro