Nominato nel 1990 da Corrado Ferlaino vicepresidente del Napoli dopo la conquista del secondo scudetto, Francesco Serao mai avrebbe immaginato di dover dare quella notizia a capitan Maradona. «Gli dissi che era uscito positivo al controllo antidoping, anticipando la squalifica. E lui mi disse: Ma perché, cosa ho fatto?». «Ma il ciclo si chiuse anche per un altro motivo, non calcistico».
Quale? «Tangentopoli, che causò una sorta di cupio dissolvi. Con quel ciclone giudiziario di trent’anni fa si bloccarono una serie di iniziative e vi fu un riflesso sulle attività di Ferlaino e sulla vita del Napoli».
Alla fine degli anni 80 Napoli non vinceva soltanto nel calcio. «C’erano grandi progetti e grandi speranze, anche perché era la città dei viceré, da Pomicino a Di Lorenzo. Contava la città a livello politico e imprenditoriale, contava la squadra. Ferlaino aveva avuto l’intuizione di far entrare nel consiglio d’amministrazione personaggi di alto profilo: imprenditori che diventarono importanti punti di riferimento nel club, politici come Mastella e professionisti come Siniscalchi. Ricordo che Franco Ambrosio fu al fianco di Ferlaino, senza ricoprire incarichi ufficiali, spingendosi fino ad acquistare il Cagliari per consentire al Napoli di ingaggiare il giovane attaccante Fonseca. Un club forte in una città in crescita».
Ma senza sindaco: il Comune, nei mesi del trionfo, era commissariato. «Lo ricordo bene: da revisore dei conti bocciai il bilancio e vi fu lo scioglimento. Però il clima era completamente differente rispetto a ora. Penso ai patchwork nelle nostre strade, dove sono state messe delle toppe per i ciclisti del Giro… Passeggiare per Napoli, anche in un luogo bello come Posillipo, diventa deprimente. C’è uno stato di abbandono e non mi riferisco soltanto alle strade».
E a cosa? «C’è uno spirito che non mi piace. Ancor prima del Covid ci siamo chiusi in noi stessi. C’è un sentimento di rassegnazione, anche sul fronte calcistico: De Laurentiis tiene bene i conti ma non si vince lo scudetto, questo è il pensiero comune».
E il suo, da ex dirigente del Napoli, qual é? «De Laurentiis dovrebbe aprirsi di più rispetto alla città. Un modo? Mettere, pure simbolicamente, a disposizione alcune azioni. Io avevo una piccola quota e mi sentivo gratificato, partecipando alla vita del Napoli in occasione delle assemblee dei soci, quando si ascoltavano le relazioni degli amministratori. È un’idea per alimentare la passione».
Ritiene che si sia un po’ affievolita quella nei confronti della squadra, a dispetto delle 13 qualificazioni consecutive nelle coppe europee? «Qui nessuno pensa che si possano rivivere gli anni di Maradona: lui è irripetibile. Ma si può rafforzare il rapporto città-squadra, come è stato suggerito da Patrizia Boldoni e Corrado Ferlaino, il presidente che ha ancora letture lucide e puntuali. L’entusiasmo che si respirava a Napoli in quegli anni era presente nello stadio e condiviso dalla gente. Ci accontentavamo di poco? Forse sì, ma adesso neanche quel poco c’è e la città ha perso il desiderio e la capacità di fare squadra».
Come fu la vita accanto a Maradona? «Diego era una sorpresa continua. Durante una trasferta ci fermammo in un autogrill e nessuno lo trovava. Moggi, il direttore generale, si preoccupò finché lui non spuntò con un pacchetto di caramelle tra le mani: Cercavo proprio queste…. E noi chissà a cosa pensavamo. A inizio aprile del 91, quando stava preparando i bagagli per tornare in Argentina dopo la squalifica, bussai al portone di casa sua ma non mi fecero entrare. A Maradona avrei voluto dire semplicemente grazie».
Il Mattino