Anti vigilia di Natale. Papà rientrò a casa con le tribune numerate centrali. Napoli Milan di quel 23 Dicembre 1973 meritava il massimo. Anche perchè, da Terracina, sarebbero arrivati i miei due cugini milanisti impenitenti, assieme al loro padre, malato tifoso napoletano di antica data. C’era stato in famiglia un duello verbo-rusticano durato un mese. I miei cugini negli ultimi due giorni erano stati costretti a cenare al chiuso delle loro camere. Napoli era addobbata a festa. La partita per me un dono in attesa dei doni natalizi. Sotto l’albero i rossoneri di Rivera, Chiarugi e Bigon. Un partitone. Al solito mia madre non perse l’occasione per esibirsi ai fornelli. Mio zio ed i miei cugini apprezzarono assai. Noi meno, dal momento che scendemmo di casa, trafelati, alle 14. Con la partita che sarebbe iniziata mezz’ora dopo, vidi mio padre, frequentatore abituale di un San Paolo sempre gremito dai solito ottantamila, galoppare veloce. E molto molto preoccupato. Fuori lo stadio un clima da girone dantesco. Non erano ottantamila, ma un milione. Arrivammo faticosamente all’ ingresso delle tribune. C’era una fila paurosa. Trecento metri di un sinuoso serpente che si snodava tra urla, strepiti, bestemmie, grida, spinte. Qualcuno, esagerando, simulava svenimenti, per risalire la fila fino all’ ingresso. “Facite passa’ se sente male!”. Tattiche da tifosi scafatissimi. Ma la nostra formazione comprendeva mio padre, mio zio, io ed i miei cugini, alti come un soldo di cacio e soprattutto mia madre. Che appena vide la fila disse: “Torniamo a casa!” Mio padre evitò qualunque discussione. Era persa in partenza. Diecimila lire a biglietto erano stati un salasso epocale. Tirò fuori la sua espressione più feroce e strinse i ranghi. Stavamo stipati in quel mare ondeggiante di cappotti cappelli e sciarpe sventolanti come barili di aringhe in un peschereccio norvegese. Volava di tutto. E si andava a passo di lumaca sarda. Facemmo dieci metri in un quarto d’ora mentre dal catino del San Paolo gremito arrivavano suoni che facevano capire che le squadre stavano per entrare sul terreno di gioco. Forse erano già entrate. Sulle scale a spirale che salivano verso l’apogeo delle gradinate si vedevano file e file di persone salire correndo. Divenne chiaro che non saremmo mai riusciti ad entrare. Improvvisamente la folla ruppe il cordone di ingresso e si riversò all’ interno. Noi fummo trascinati verso il varco come fossimo dentro il salto di una rapida canadese. Gli inservienti chiusero il varco. Incominciò ad arrivare la polizia. Anche quella a cavallo. Che caricò pesantemente. Un fuggi fuggi generale, con noi immobili fotogrammi di un film dell’orrore. Dispersero tutti. I varchi si chiusero rapidamente, presidiati dai carabinieri ed i loro cavalli. La partita prese il via. Fuori rimasero almeno cinquemila tifosi. Forse di più. Tra di loro anche noi. Mio padre, civilmente, protestò verso un maresciallo dei carabinieri. “Abbiamo pagato sessantamila lire i biglietti, fate qualcosa”! Il maresciallo lo ascoltò, annuì pensoso, si guardo intorno, poi gli disse: “Vuje che vulite a me?” E se ne andò. Mio padre rimase li con i biglietti tra le mani. Una pena infinita. Trovammo un buco in un vetro che dava sul campo. Un buco grande quanto una moneta. Si vedeva un minuscolo pezzetto dell’area di rigore. Restammo lì. Con mio padre che in alternanza con mio zio ci faceva la cronaca. Mia madre tornò a casa. Il Milan vinse due ad uno. Da allora, ogni volta che c’è Napoli-Milan, scendiamo da casa tre ore e mezzo prima. E ci sediamo lì, a stadio semi vuoto, a ricordare quel giorno nel quale pagammo sessantamila mila lire per assistere ad una partita del Napoli da un buco in un vetro.
Stefano Iaconis