Nicoletta Romanazzi è la regina dei mental coach: è lei l’artefice del miracolo Marcell Jacobs e non solo.
Dottoressa, lavora anche con molti calciatori come Scamacca, Perin, Bertolacci, Zappacosta, Vecino, Castrovilli. Quanto è diverso preparare un calciatore rispetto a un atleta olimpico? «La paura del giudizio è uno dei temi più ricorrenti su cui lavoro con gli sportivi. E spesso è addirittura maggiore per chi fa uno sport di squadra: non c’è solo la paura di deludere con la propria prestazione negativa te stesso o il tuo ambiente, ma c’è anche il timore e la responsabilità nei confronti dei compagni di squadra, del tuo mister, del tuo presidente. Gestirsi emotivamente fa la differenza».
Lei è tifosa di calcio? «La Roma è nel mio cuore, ora mi risulta difficile fare il tifo per qualcuno perché i calciatori li ho in tante squadre di serie A».
Ecco: Milan, Inter e Napoli sono vicinissime e in poche settimane si giocano lo scudetto. Quanto inciderà l’aspetto mentale? «Tanto, tantissimo. Passa tutto dalla mente».
Come si rialza una squadra dopo una sconfitta? Per esempio il Napoli cosa deve fare per dimenticare il ko con il Milan? «Siamo noi a poter cambiare la prospettiva da cui guardare quello che ci accade. Siamo noi a scegliere il significato della sconfitta. È importante accettare la frustrazione della sconfitta, ripensarla. Posso scegliere: me la prendo con il mondo esterno, senza assumermi responsabilità. Oppure riconosco che il mio avversario in quella partita è stato migliore di me e mi metto al lavoro per fare in modo di recuperare questa differenza. Ma il punto di partenza è quello di star male per la sconfitta, ripensare e riguardare la propria prestazione e chiedersi cosa fare la prossima volta per non ripetere quegli sbagli».
Cambia questa visione da calciatore a calciatore? «Tutto dipende da come ti posizioni nel gruppo-squadra: alcuni calciatori con una forte leadership possono lavorare anche per supportare la propria squadra. Una delle cose più importanti su cui lavoro è imparare a non cedere all’esterno il proprio potere personale cercando fuori la responsabilità dei propri risultati».
Certe squadre, come il Napoli per esempio, quando arriva a una gara-clou deludono. C’è un motivo? «È molto più facile giocare quando non hai pressioni, quando non hai nulla da perdere e devi conquistare una posizione di prestigio. Ed è un lavoro mentale diverso che ti aspetta quando invece quella posizione la devi difendere ed è lì che arrivano mille paure e lo stato di tensione va gestito con un lavoro su se stessi. È logico che in generale quanto più importante è la gara tanta più tensione si crea. Ma ci sono atleti che si gasano di più in occasioni così e soffrono quelle meno importanti. Siamo noi che possiamo imparare a gestire i nostri stati d’animo e a entrare volontariamente nello stato della trance agonistica e rimanerci per il tempo necessario. Tutto sta a trovare la chiave giusta».
Sono molti i calciatori che lavorano con lei? «Una volta se ne vergognavano, ora non più. E fanno bene, perché chi si rivolge a un mental coach ha il coraggio di mettersi in discussione, lavorando per superare i propri limiti».
C’è una cosa che accomuna i calciatori? «Spesso capita che pensino di non giocare per colpa del cattivo rapporto con il mister, oppure perché non ben visti da qualche compagno. E allora la chiave è spiegare che è inutile sprecare energie su qualcosa che non puoi cambiare ma importante lavorare su se stessi, sul modo di interagire con il mister e con i compagni. Se cambi tu, cambieranno anche loro».
Entra in gioco con la testa è il titolo del suo libro presto in libreria. «La testa non è un muscolo. Ma va allenato come se lo fosse. Con quotidianità. Imparando dai propri limiti. E provando ad andare oltre».
Fonte: Il Mattino