Walter Mazzarri. Nell’ album della memoria Reggio Calabria occupa (giustamente) un posto di rilievo, ma Napoli rappresenta la vetta d’una carriera illanguiditasi proprio nell’istante in cui, forzando il vento, scelse di ricominciare. Prima che «cominciasse a piovere», tra le difficoltà dell’Inter, la tentazione inglese con il Watford, l’andamento assai oscillante tra Torino e Cagliari, Mazzarri sparge sole su Napoli. In quel quadriennio c’è il senso compiuto di una piccola-grande rivoluzione. Il Napoli ostinato, che non muore mai, che decollerà poi quando in quell’idea ci finirà dentro anche Cavani, con Pandev. Mazzarri è il ponte di ricongiunzione del Napoli con la sua stessa storia, ha avuto il potere di favorire il processo di internazionalizzazione di Benitez. Il Mazzarri napoletano è una maschera d’eterna sofferenza, la giacca lanciata sulla panchina, le maniche della camicia arrotolate, è quasi la posa della prima pietra per immergersi in una dimensione inaspettata e però ambita, nella quale lascia una scia e porta per sé (forse) il rimpianto d’essersi invaghito d’altro nel momento sbagliato: mai più Mazzarri è stato come prima (e mai ha saputo battere il Napoli).
CdS