Dal sentiero sento il sommesso vocio che arriva da una radio. Mi guardo intorno, nel silenzio del luogo, quel vocio si amplifica salendo ad abbracciare i rami dei radi alberi spogli. Cammino, guardando le lapidi che sorgono dappertutto, alcune scheggiate, impolverate, con davanti vasi vuoti il vetro opacizzato dal tempo, altre ornate da fiori freschi, così pulite che puoi scorgere le date impresse sul marmo anche da quella distanza. E lo vedo. Seduto su una piccola sedia in plastica, chino davanti ad una tomba, le mani giunte, le gambe un po’ larghe, i lembi del cappotto che sfiorano le foglie secche annodate tra loro ai suoi piedi. La radio se ne sta poggiata sul marmo, l’antenna sollevata quel poco, una radio di un tempo che fu. Non lo scorgo in volto, è immobile, e quando io mi muovo verso lui, facendo crepitare le foglie lungo il sentiero, resta così, come in ascolto di qualcosa che solo lui sente. Fa freddo, e manda poco alla chiusura del cimitero, tra poco sarà una domenica di calcio, devo sbrigarmi. Si materializza di fianco a me, poggiando il peso del corpo su una vanga dal piatto enorme. Ha gli occhi senza espressione, il viso punteggiato da una barba grigio ferro disordinata, ma il sorriso diventa dolce quando indica l’ uomo chino sulla radio. “Sta sempre là, ogni domenica. Ci sta il figlio là sotto. Lui viene sempre, verso le 11 e si trattiene. Si sente la prima mezz’ ora di partita, prima che chiudiamo con la radio sulla tomba. Nessuno gli dice niente. Lo facciamo stare. A volte, quando segna il Napoli, parla ed accarezza la lapide”. Raccogli la vanga, e continua sul sentiero. Arriva una folata di vento. La radio parla, incessante, mentre l’ uomo sulla tomba non ha mai cambiato posizione. Guardo l’ora. Ci vedo nel quadrante gli occhi di mio figlio, gli occhi accesi, mentre saliamo i gradini dello stadio. Mi stringo nel cappotto, mentre torno indietro. E mi asciugo una lacrima. Ho freddo.
Stefano Iaconis