La storia degli eterni numeri “dodici”, i portieri di riserva costretti all’ombra di figure titaniche, si ciba delle leggenda. Storie di calcio minori, intrecciate ad altre. Adesso va di moda la turnazione. Una regola partorita dal nuovo calcio, quello proiettato verso un futuro sempre più lontano dalle vecchie tradizioni. Portieri che si avvicendano, metodicamente. Uno fa la coppa, un altro l’amichevole di lusso, il terzo gioca in campionato, con buona pace di ogni logica legata al sano principio della fiducia del “gioca il più forte”. Tempo di procuratori. Che decidono le sorti di un calcio malato endemicamente. Nevio Favaro veniva da Scorzè, sulla laguna. Un paesino a due passi da Venezia. Il paesino delle “Brentane”, le piogge che allagano e portano inverni gelidi ed estati umide e roventi. Un paese silenzioso, lontano dal brusio della Serenissima. Silenzioso come Nevio. Arrivò dalla Fiorentina, Favaro, dopo una infinita panchina come secondo all’ inossidabile Superchi. Da Scorzè a Napoli. Dal silenzio rotto dalle piogge, al vociare cacofonico che il sole riscaldava. Anche sotto il Vesuvio, la panchina. Un destino da dodicesimo scritto nel suo taccuino del destino. In quegli anni il ruolo di secondo veniva immortalato dalle figurine Panini. I “dodici”, i vassalli della porta, celebri come i loro feudatari. Alessandrelli, nella Juventus. Pozzo, in azzurro Napoli. Avagliano, laziale di una sola partita ed un autogol con l’Avellino ricordato negli annali dei “gollonzi” cari alla Gialappa. Carmignani lasciò a Favero, in tre anni la, miseria di sei partite. Tutte snocciolabili velocemente. Cagliari, due volte il Milan, altrettante il Foggia, ed una con il Torino. Quattro vittorie, un pareggio, e due sconfitte. Poche apparizioni, invero, nelle quali Nevio non si mise in luce con prestazioni scintillanti. Anzi. Un gol di Calloni, in un Milan Napoli uno a zero, ed i due gol subiti in una vittoria per tre a due al San Paolo contro il Foggia, avevano fatto gridare all’untore. Ma come in tutte le storie che si rispettino, Nevio Favaro visse il suo momento di assoluta gloria in un gelido e nevoso pomeriggio polacco di marzo. Quarti di finale Coppa delle Coppe del 1977. Si, quella della semifinale con l’Anderlecht. Quella del gol di Bruscolotti, bella, partita di ritorno con i belgi, dopo aver messo il bavaglio a Rensenbrink. Carmignani in quel pomeriggio polacco non può giocare, si accomoda lui in panca, e ci si deve affidare a lui, a Nevio Favaro. Che ha giocato tante partite in due anni, quante sono le dita di una sola mano. Vento, freddo polare, neve ai bordi del campo. Ed uno stadio ribollente di tifo. Al cospetto di una squadra semi sconosciuta, gli azzurri di Pesaola erigono le mura di Masada. Una partita di trincea con quelli dello Slask a provarci in ogni modo e Nevio Favaro a negare il gol ogni volta. In una foto bianco e nero, il portiere dal maglione grigio, è letteralmente in volo da un palo all’altro in una parata prodigiosa. Saranno almeno quattro, in quel pomeriggio che permette al Napoli di tornare da Wroclaw con uno zero a zero prezioso che verrà ribaltato al San Paolo 15 giorni dopo da Massa e Chiarugi. Il ronzio di un televisore in bianco e nero fu da corredo ad una prestazione indimenticabile. Favaro ricacciò indietro lo Slask. Quel pomeriggio l’eterno dodici divenne un numero primo. Entrando nei cuori azzurri.
Stefano Iaconis