Walter Sabatini: «Spalletti il più grande. Tra Osimhen e Mbappé mi prendo lui»
È uno dei maggiori esperti di calcio e di uomini
Giancarlo Dotto intervista Walter Sabatini (Fonte Cds)
Dopo essere stato pressoché morto, coma certificato, intubato prima del Covid, e allucinazioni non sempre piacevoli, come bussare alle porte del paradiso scortato da Bob Dylan e scoprire che il paradiso è un emporio di periferia dove acquistare merce di scarto e deperibile, Walter è una belva in gabbia che vuole tornare a fare il suo mestiere preferito: il mercante di uomini. Lui parla solo con il cellulare in viva voce e piccole folle ascoltano spesso i suoi dialoghi. «Odio appoggiarlo all’orecchio».
In quanti siamo adesso? «Sei fortunato, siamo io e te soli, e il mio Santiago che gioca al primo piano con un amico».
Umore generale? «Nero, insofferente. Devo tornare presto, il prima possibile, emigrando all’estero se serve, andrei anche in Belgio».
La chiamerei crisi d’astinenza. «Chiamala come vuoi. Sta di fatto che sono insonne. Brucio. Non dormo mai prima delle quattro…»
E che fai da insonne? «Penso, leggo molto, mi agito, scrivo messaggi a chiunque, anche sapendo che non mi rispondono. Ora li manderò anche a te…».
Tua moglie Fabiola dorme con te? «Si sdraia sul divano e aspetta le 4 per venire a letto».
Quando sei inoffensivo… «Se è per questo sono inoffensivo anche alle 11».
Inoffensivo in senso lato, intendevo. Il cervello finalmente spento. «Do le testate al muro… Il calcio è per me come la follia del gioco di Dostoevskij. Perdeva tutto, anche il cappotto. Restava sotto la neve in maniche di camicia e per tornare a casa si faceva mandare i soldi dalla moglie».
Perdere e ricominciare. Il gioco come ripetizione infinita dello smacco. «Ricomincerò, ma non modificherò i miei comportamenti. Non torno indietro… Una cosa ci tengo a dirti. Non mi sono dimesso dal Bologna».
Bensì? «C’è stato un corto circuito. Ho solo scritto a Saputo, dopo una brutta sconfitta in casa, dicendo che ero a sua disposizione per qualunque decisione volesse prendere».
E lui l’ha presa. «La mattina dopo è venuto in ufficio: è meglio che le nostre strade si dividano. Così mi ha detto».
Tu hai fatto un bel gesto, un atto dovuto e lui ti ha mandato a casa. «Questo è successo. Non è un trionfo per me, io credo molto nel laboratorio Bologna. Ma, attenzione, non è finita qui…».
In che senso? «Ci fu un precedente alla Roma. Me ne andai a metà stagione per un dissenso con Pallotta. Spalletti arrivò da solo a 87 punti. Io quella la sentivo come la mia Roma, non persi una partita. Farò così con il mio Bologna e alla fine tireremo la somme».
E se il tuo Bologna dovesse prendersi l’Europa? «Sarà una riabilitazione della mia persona nei confronti del calcio. Non chiedo altro».
Si dice che sia stata una parola infelice di Saputo sul tuo Bologna a scatenare il corto circuito. «A me basta poco. Una parola, ma anche un’occhiata sbagliata. Sono fatto così, mi accendo. Ho capito che dietro quella parola di Saputo c’era una sua delusione e sono passato all’atto».
Non vi siete più sentiti? «No, non c’è motivo. Non abbiamo niente da dirci».
Brutale congedo. Quello di Pallotta? «Con Pallotta almeno ci sentivamo, direttamente o con delle mediazioni. Devo dire che anche io sono insopportabile. Caccio urla, strepiti per niente. Sono il primo censore di me stesso».
Vivresti con te stesso? «No, mi detesto. Detesto anche la mia voce. La trovo orrida e inascoltabile».
Nel mondo dello spettacolo sono in tanti ad amarti. «Avevo tanti amici attori, adesso li ho persi di vista, a parte Valerio Mastandrea con il quale mi lega un’amicizia straordinaria. Gli voglio bene. E Paolo Rossi, l’attore, al quale pure voglio un bene speciale. Un fenomeno di bravura e di generosità».
Nessuno ce la fa a calmarti, nemmeno tua moglie? «Sono assediato da consiglieri che mi scongiurano di stare calmo, ma io sono contento così, ho bisogno che le mie cellule esplodano. Mi sento vivo quando m’incazzo. Non voglio controllarlo. Sono sempre stato per il caos».
Il tuo amato Sorrentino ha detto che gli è difficile a girare a Napoli. Troppo caos.
«L’ho letto. Sorrentino mi attrae, è un genio. E poi ha sempre dato uno spazio nobile nel suo cinema alla sigaretta e al fumo. La Grande Bellezza l’ho visto tre volte. Questa sua uscita mi genera un dubbio profondo».
Potresti tornare al Bologna? «Improbabile. Io non ho bisogno di tornare al Bologna, il mio sogno è pacificarmi con me stesso, tornare a praticare l’idea del calcio che ho in testa, ovunque questo sarà possibile».
Fibrillazioni speciali al Bologna? «Quando Musa Barrow girava la gamba in allenamento per prepararsi al tiro. Andavo sempre agli allenamenti con il batticuore per vedere i miei talenti. Schouten, per dirne uno, è il tipo di giocatore che manca alla Roma».
L’addio più doloroso? «Quello col Bologna. Mi duole fortemente. Mi mancano il club e la città. Il Covid rischiava di uccidere uno nelle mie condizioni e Bologna mi ha protetto in tutti i modi, con un cordone sanitario e affettivo straordinario».
Mihajlovic lo senti? «Ogni tanto».
Il tuo Sinisa? «È un uomo insospettabilmente sensibile e tenero, ma è ancora in fase di maturazione. Deve mettere a fuoco le sue priorità. Ci deve lavorare sopra».
Quali solo? «Quella di diventare un grande allenatore, non un allenatore invischiato in troppi luoghi comuni».
Del tipo? «Ha tutte le risorse intellettuali e di esperienza per scappare dai suoi cliché e diventare un grande. Parlo dei cliché che gli hanno affibbiato del “sergente di ferro”, dell’uomo che fa crollare gli spogliatoi e attacca i giocatori ai muri. Un grande allenatore non ha bisogno di scenate, ma di dire cose, contenuti».
Glielo hai detto in privato? «Certo, ma dirlo in pubblico gli sarà più utile. S’incazzerà, lo so, è permaloso, ma gli farà bene».
Pronto per una grande squadra? «Lui è ancora al cinquanta per cento delle sue possibilità e della crescita come uomo, ma ha tutto per farcela, ha carisma, ha le idee chiare, sa parlare ai giocatori».
Lasciare l’Inter dei cinesi. Un altro corto circuito? «Ho fatto una grande cagata che un professionista non può fare per nessun motivo. Non mi perdonerò mai. Non mi sono mai perdonato nulla, ma questa meno che mai».
Vedere Dzeko con la maglia dell’Inter? «Un effetto bruttissimo. Da star male. Soprattutto per mio figlio Santiago che non si rassegna».
Traumatico l’addio alla Sampdoria. Sono volati schiaffi. «Ci siamo solo spintonati. Ferrero stava inveendo contro Giampaolo sulla porta dello spogliatoio dopo una brutta partita persa a Bologna. Non potevo stare lì a guardare».
Sarri alla Lazio ti convince? «Deve ancora colmare lo spazio che c’è tra la sua idea di calcio e le risposte della squadra, che sono intermittenti ma cominciano ad esserci».
La tua idea di calcio? «Una squadra che abbia decoro, dignità e autostima, il talento giovane che serve. E un’umile ambizione. Una squadra senza ambizione è una squadra fasulla. La mia aspirazione? Rendere felice la gente».
Una grande ambizione… «Non così grande. La felicità, sappiamo, è effimera. Mi basta vederla esultare allo stadio la domenica. Felice di essere lì, in quel momento».
Dove hai visto la gente felice allo stadio nei club da te gestiti? «Certamente a Palermo, a Roma a intervalli regolari, anche il primo anno di Spalletti all’Inter ho visto gente felice».
In questo senso Mourinho ha già vinto a Roma. «Puoi ben dirlo, quella di Mourinho è una fragorosa vittoria. Ha reso felice una città intera. Io ci vivo a Roma, da anni non vedevo i romanisti così euforici».
Situazione pericolante, visti anche gli ultimi risultati. Come fare a far durare questo idillio? «Deve dare lustro alla sua fama. Un trofeo è quello che ci vuole. Mourinho e la Roma ne hanno bisogno. Sarebbe un impulso straordinario. Mi risulta che saranno 40mila domenica all’Olimpico».
Si era parlato, prima della notizia choc di Mourinho, di una triade a Roma: Spalletti, De Rossi e Sabatini. «Stiamo parlando solo di una favola cosmica. Luciano e Daniele, oltre che due professionisti straordinari, sono una compagnia straordinaria anche a tavola. Con loro i cenacoli sarebbero interminabili».
Non possiamo non parlare della Roma umiliata e offesa di giovedì al circolo polare artico. L’hai vista? «Che cazzo di domande mi fai, certo che l’ho vista».
Che cosa hai visto? «Un incidente frontale. Una squadra pronta per giocare quella partita contro una squadra che non era pronta».
Tutto qui? «E ti pare poco? Con quel freddo, quel vento e il campo in sintetico. È durissima. Loro sapevano cosa fare, la Roma no. Evidente che ha preso sottogamba il problema. Non sapevano proprio dove si trovavano».
Giustifica il 6 a 1? «Non lo giustifica, ma lo spiega in parte»
Spallettone a Napoli sta spopolando. «Lui è il più grande di tutti, la follia lo aiuta. Ha in testa e canta gli inni dei tifosi del Napoli, sta cercando di costruire un sentimento potente che consenta di superare i momenti difficili che comunque ci saranno. Vincerà, anche se tutti a Napoli a cominciare da lui si toccheranno».
Indice puntato su Mourinho che ha brutalmente insistito nel sottolineare la pochezza dei non titolari. «Considero un errore averlo sottolineato così tante volte. Era un messaggio che voleva mandare alla società».
Mourinho contro Spalletti. «Scontro titanico, anche se i due si rispettano molto. Quello della Roma lo considero solo un incidente di percorso, il rischio è che i giocatori del Napoli credano di poterli sbranare, ma Luciano non glielo permetterà. Se la Roma dovesse andare in vantaggio, loro sono maestri nel difendere e nel ripartire».
Il giocatore dominante del Napoli? «Osimhen su tutti. Fa tutto, segna in ogni modo, è inarrestabile. Si precipita su pallonate impossibili e le fa sue. Oggi, tra Mbappé e Osimhen io mi prendo Osimhen».
E dunque? «Tornerò in pista presto. Odio l’oblio, è l’anticipo della morte, quindi rassegnatevi a vedermi ancora vivere e agitarmi».
Quante sigarette elettroniche ti sei fatto? «Me ne sono spipacchiate solo tre che mi hanno aiutato a sopportarti, anche se con te mi viene facile».
Fonte: Giancarlo Dotto CdS