Il caso Osimhen ipotizza nuovi scenari. Avanza la tecnologia col giudice robot

In alcuni Paesi si fa ricorso all’intelligenza artificiale dove l’interpretazione cede il posto alla rigidità della regola

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Alessandro Barbano, in un editoriale sulla espulsione e sulla squalifica di Osimhen, ha posto alcune interessanti questioni riguardanti la giustizia e il processo sportivi, aprendo la strada a qualche ulteriore riflessione. La legge n. 243 del 2003 ha riconosciuto l’autonomia dell’ordinamento sportivo. In forza di tale autonomia gli organismi sportivi organizzano la loro giustizia e dettano le regole del processo. I principi irrinunciabili di qualsiasi forma di giustizia e, quindi, di processo possono essere così riassunti: deve essere assicurato il diritto all’accesso alla giustizia dinanzi a un giudice terzo e imparziale in un processo che garantisce il pieno diritto di difesa e, quindi, il diritto a provare i fatti a sostegno delle posizioni delle parti. 

 

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GIUDICE ROBOT

 Risponde il processo sportivo a questi requisiti? È evidente che la giustizia sportiva ha le sue esigenze. In particolare deve essere rapida, perché la decisione interferisce inevitabilmente con le attività dell’atleta che devono svolgersi con continuità. Tutto ciò ha portato a costruire un processo robottizzato, nel quale l’uomo potrebbe essere sostituito dalla macchina. In Paesi assai dinamici e assai sensibili alle esigenze dell’economia (penso alla Cina, a Singapore e, in Occidente, all’Olanda e in qualche zona dell’europa del Nord) si comincia a ricorrere alle intelligenze artificiali (anche) per amministrare giustizia in alcuni tipi di controversie. Colossi economici (Amazom, eBay) investono, per conto loro, nelle ODR (ossia in metodi di risoluzione delle controversie on-line). A me pare che l’attuale giustizia sportiva, così come è regolata, si potrebbe porre sulla scia e sostituire la macchina alle persone (giudici e difensori) con notevole risparmio dei costi. Sarebbe, infatti, sufficiente affidare alla intelligenza artificiale il referto arbitrale e le difese delle parti, per avere un’automatica elaborazione dei dati. In questo tipo di processo (e ciò non è sfuggito alla sensibilità del Direttore) il travaglio dell’interpretazione cede il posto alla rigidità della regola preconfezionata, che dà valore assorbente al referto arbitrale. È giustizia? 

VALUTAZIONE-RECEZIONE

Il referto arbitrale è materiato di parole e le parole sono “significanti”, che spesso sintetizzano comportamenti e racchiudono valutazioni. Esemplifico. Il referto segnala che il calciatore ha fatto uno sgambetto. I cultori dell’analisi del linguaggio e in particolare i fenomenologi direbbero che la parola riassume varie azioni: la gamba tesa del giocatore; l’impatto con l’arto dell’avversario; la caduta; il grido di dolore. La parola, inoltre, raccoglie i gesti in un rapporto di causa ad effetto (di cui lo sgambetto è la sintesi). Senza dimenticare che la dinamica può essere a base della valutazione circa l’intenzionalità del fallo. Di conseguenza, l’arbitro, nel suo referto, inevitabilmente non si limita a descrivere, ma valuta. Compie una sorta di giudizio preventivo. Questa è la ragione per la quale il giudice, quando sente il testimone in un ordinario processo, si fa chiarire il significato delle parole da lui adoperate, non si limita alla sintesi, vuole che egli descriva l’azione nel suo sviluppo. Fa, insomma,l’operazione interpretativa, che è difficile e travagliata, e non si limita alla passiva recezione, che è propria della macchina. Ed è questa la ragione per la quale il diritto alla prova, che dovrebbe essere un diritto pieno, finisce con l’essere ingiustificatamente limitato se alla libertà dell’indagine e della interpretazione si sostituisce la rigidità di una regola convenzionale. 

PROVE

Tramite immagini. Mi sono chiesto per quale ragione le regole del processo sportivo limitino il ricorso alla prova audiovisiva soltanto nel caso di scambio di persone o di estraneità manifesta. Forse la regola è stata elaborata quando non era ancora in funzione il VAR e per evitare che nel processo la parte introducesse registrazioni manipolate o prese da angolazioni particolari idonee a suggestionare. Se questa fosse la ragione, la limitazione oggi non avrebbe ragione di essere. Di più. Sarebbe opportuno prevedere che, in questi casi, il referto dell’arbitro fosse accompagnato dalle registrazioni ufficiali dell’accaduto. Queste ultime, infatti, avrebbero la funzione di integrare la relazione dell’arbitro e di offrire al giudice gli strumenti per “interpretare” le parole da lui adoperate confrontandole con le immagini nel loro sviluppo dinamico. Con uno sforzo non impossibile si potrebbe ritenere che lo stesso giudice, al quale non è inibito un potere ufficioso di indagine, possa chiedere la produzione in giudizio da parte dell’ufficio delle registrazioni effettuate nella camera del VAR. E se non si ritenesse ciò possibile, il CONI, come organo di vertice,dovrebbe chiedersi se risponda ai principi di un processo giusto una disciplina che limita senza valida ragione il diritto alla prova della parte e, se si convincesse che la regola è ingiusta, dovrebbe sollecitare una riforma delle regole processuali adottate dalle Federazioni. In un modo o nell’altro si dovrebbe dare al giudice la possibilità di stabilire, con una sua valutazione, se il gesto di Osimhen sia stato uno schiaffo (ossia un colpo al viso dato con l’intenzione di colpire e di far male) o una manata (ossia un gesto istintivo di reazione a chi lo strattonava affatto privo dell’intenzione di fare del male). E nel momento in cui il giudice sportivo desse la sua consapevole valutazione (“causa cognita”, dicevano i nostri padri), qualunque essa fosse, non potremmo dolerci per un sistema di giustizia che l’uomo comune, con il suo buon senso, intuisce essere ingiusto. 

A cura di   Giovanni Verde (Ex magistrato). Fonte: CdS

 

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