Papà me lo diceva ogni volta. Nell’applauso della folla, guardandomi con gli occhi luccicanti. “Quando non ti verranno più i brividi, vedendoli entrare in campo, quando non sentirai più le lacrime pungere gli occhi per venire fuori, e quel pugno allo stomaco, che ti fa battere forte il cuore, sarà solo un rumore sordo, ecco, allora vorrà dire che allo stadio non dovrai più venire”. Sono passati 40 anni. Eppure ogni volta che vedo quelle maglie azzurre spuntare dal sottopasso, brividi, lacrime, cazzotti nello stomaco, ogni cosa, eguale nel tempo, sale fuori dal pozzo delle emozioni. E l’anima si abbevera. Il principio di ogni emozione conosciuta, l’ingresso in campo. Quelle maglie azzurre che chiamavano a raccolta il popolo del San Paolo. Ora come allora. Precedute dal suono degli altoparlanti che strillavano, con la voce che ha accompagnato la pubertà calcistica di una intera generazione di piccoli tifosi, poi adulti, ma per sempre bambini, nell’attesa del momento più bello. “Armenio Arianna, Arianna Armenio, tutto per la moda”. “Maico, Maico, Maico, vince la sordità”.
E poi le formazioni, annunciate dal leggendario “Mobilificio del fratelli Trasi”, che offrivano quella del Napoli. Con il numero 1… Con il numero 2… Ritmata dagli olè del San Paolo. La formazione avversaria la scoprivi sempre in campo. Lo speaker la snocciolava, tu non la sentivi. Sommersa da un uragano di fischi. Gli anni nei quali il calcio è diventato, per noi che avevamo solo la domenica come giorno da dedicare al pallone a spicchi, iconico. E poi quell’ urlo. Liberatorio, divinatorio. Sacro. “Evvillocco, stanno ascenno!“. E lo stadio intero, in una frazione di secondo era in piedi. Come ad un segnale convenuto, migliaia di persone salivano sui sedili. Perchè le prime file, mai sedute, impedivano la visuale. E ci si doveva alzare in piedi. Con rassegnazione. Sorridente rassegnazione. Quando pioveva quel sottopasso era gremito di ombrelli neri fino all’inverosimile. Tanto che non si vedeva nulla. Ma il tam tam giungeva eguale. Un passa parola che annunciava l’ingresso. In un battibaleno l’ urlo si propagava di bocca in bocca, le mani tenevano le mani per salire su quei sediolini, sui gradini, su ogni dove. Vedendo quella maglia azzurra stagliarsi sul podio più alto dell’ingresso, sbucare fuori. Non è mai passata. Ogni volta, è la stessa emozione. Come citano le strofe di un coro oramai abbandonato sugli spalti, un coro antico come antica è la passione per questa venerabile maglia: “Perchè quando il Napoli è in campo, fortissimo batte il mio cuor”. Me lo diceva sempre papà. Ma tanto è inutile, non passa. Chella è ‘na malatia. E da quella malattia, non si guarisce. Mai.
Stefano Iaconis