«Il calcio mi è sempre piaciuto, anzi, a 16 anni giocavo nell’Internapoli. Ma mai avrei pensato di entrare nel mondo della serie A». Invece Gianluca Santaniello, 33 anni, napoletano del Rione Alto, nel mondo professionistico ci è entrato, eccome. Una laurea alla Bocconi, è executive manager del Venezia da tre anni.
Emozionato? «Figurarsi, nel primo anno della C mi abbonai al San Paolo perché volevo dare sostegno alla squadra e alla società», Ma non è più il San Paolo… «Lo so, al Maradona non ci vado da un po’ di tempo. Sicuramente non l’ho visto ristrutturato dopo le Universiadi. Mi fa piacere vederlo dopo i lavori».
Ma le è piaciuto il cambio di nome? «Se fosse stato un cambio per intestare lo stadio a uno sponsor i napoletani magari non avrebbero capito. Dare il nome del più grande mi sembra una scelta azzeccata anche dal punto di vista del marketing». Oggi sarà a Napoli? «Assolutamente si. L’esordio in A del mio Venezia non me lo sarei mai potuto perdere. È una società che cresce anno dopo anno, e i risultati lo testimoniano».
Ci racconti la sua storia. «Per le mie competenze nel mondo della consulenza venni chiamato dall’allora presidente Tacopina per seguire il passaggio al nuovo proprietario, l’americano Duncan Niederauer. Il quale ha apprezzato il mio lavoro e ha deciso di darmi un’opportunità». E ora lei è l’executive manager, un ruolo che non ha molti omologhi nel calcio italiano. «In effetti è così. Se vogliamo trovare qualcuno che ricopra il mio ruolo negli altri club, Umberto Marino nell’Atalanta, o Alberto Barile nel Torino».
Di cosa si occupa? «Devo dare esecuzione agli obiettivi strategici della società. Gli americani tengono distinti le due aree, sport e corporate. Io mi raccordo con entrambe». Ormai sempre più club sono a stelle e strisce in Italia. «Il nostro campionato ha sempre appeal, anche negli Usa. E in tanti fanno investimenti. Pensiamo al Venezia. Noi siamo un brand, specie all’estero. Tutte le nostre comunicazioni sono anche in inglese, proprio per il valore mondiale della città». Ma può cambiare qualcosa nel sistema calcio?
«La crisi c’è, inutile negarlo. La pandemia ha stravolto tutto. Per esempio l’ipotesi della Media Company è sempre attuale, proprio per un problema di liquidità dei club».
E come si può fronteggiarla? «Le società devono essere economicamente sostenibili».
Cioè? «Devono provvedere a se stesse, senza che gli investitori immettano liquidità».
Le proprietà Usa spesso si scontrano con la carenza di strutture.
«Il nostro Penzo è lo stadio più vecchio d’Italia dopo il Ferraris di Genoa. Noi lo abbiamo ristrutturato, insieme al centro sportivo di proprietà comunale per renderlo un impianto funzionale. Pensiamo che il calcio, e lo sport in generale, debba avere anche una valenza sociale. E in questo senso mi permetta un pensiero a una persona speciale».
A chi? «Mario Paciolla, il cooperante ucciso in Colombia. Era al liceo Vittorini con me. Una persona speciale, che si dedicava agli altri».