Insigne è un esterno che vede bene la porta e segna molto più di Bruno Conti, a cui forse oggi e in azzurro potrebbe essere accostato, non solo perché è un simbolo dell’Italia in miniatura. Pensate, due piccoletti come Insigne e Barella che mandano a casa il gigante Lukaku. L’evoluzione tecnica, nel pieno della maturità, ha portato Lorenzo a sviluppare la capacità di muoversi da regista offensivo, di cucire il gioco, di legare centrocampo e attacco. Così lo ha valorizzato Mancini, un altro fantasista che in Nazionale non si era mai realizzato in modo compiuto. Ai Mondiali del ‘90 rimase a guardare per un eccesso di timidezza e l’incapacità di prendersi tutto, schiacciato dalla concorrenza di Baggio, Schillaci e Vialli. Sono passati trent’anni dalle notti magiche, ma queste cominciano ad esserlo nella stessa misura, persino nell’epoca della pandemia e della burocrazia legata ai controlli Covid. È un primo passo, ne restano altri due, in semifinale con la Spagna e poi chissà nell’ultimo appuntamento a Wembley l’11 luglio. Insigne, nella pancia dell’Allianz, ha evocato il mantra diffuso dal ct quando gli azzurri erano ancora in campo, riuniti in cerchio e decisi a guardare avanti. «Devo ringraziare Mancini e la squadra per la fiducia, ma dobbiamo continuare. Non abbiamo ancora fatto nulla». Un quadro non basta. Serve la galleria. “O tiraggir” e i suoi amici mirano al bersaglio grosso. Non è l’ora di guardarsi allo specchio.
F. Patania (CdS)