Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Dissero, dicono”

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Si disse era stata la camorra. Centinaia di milioni scommessi, che non potevano esser coperti. Si disse che era stato il nuovo centro gravitazionale di una Milano che incominciava a fagocitare, dentro un sorriso seducente, un cappello di feltro, una cravatta sempre blu ed un cappotto di cachemire, il vecchio potere politico, sostituendolo con il bolo guasto di uno nuovo, audace, scaltro, senza freni. Si disse fosse stata fatta “un’ offerta alla quale non si poteva rinunciare”. Un’ offerta come uno scambio. Un titolo di campione d’Italia, in cambio di non si sa cosa. E si disse che, due anni dopo, ogni cosa fosse stata restituita, dentro una monetina lanciata a Bergamo. Il prezzo dell’ inganno. Una moneta contro trenta denari. Si disse di tutto. E più di tutto. Dopo quelle settimane che seguirono quel primo maggio del millenovecentottantotto. Quando il Milan di Van Basten, di Rijkaard e Gullit, di Baresi e Virdis, e del potente uomo con il cappello di feltro, la cravatta in blu ed il cappotto di cachemire, il Milan di Silvio Berlusconi, venne a prendersi un incredibile scudetto a Napoli. Si disse di tutto. Che Maradona aveva fatto le ore piccole, in un noto locale di Posillipo. Ubriaco. Con Careca. Ma furono i migliori in campo, loro due. Diego pareggiò il gol iniziale di Virdis, con una prodezza su punizione incredibile. In barriera Giovanni Galli mise quasi tutto il Milan. E lui, il pibe, mise la palla all’incrocio dei pali a destra del portiere rossonero. Che rimase a terra immobile domandando con gli occhi “Io cosa potevo fare?”. Poi, Diego, corse a stappare fuori la sua gioia ribollente, mentre uno stadio intero ribolliva. Eppure si disse che, quella partita, aveva deciso di perderla. Careca realizzò il gol del 2 a 3,quello della speranza, dopo che ancora Virdis, e Van Basten avevano sbriciolato il San Paolo. Careca che, un momento dopo, sfiorò il tre a tre, disperandosi poi senza posa. Dissero che ogni cosa era stata pianificata a tavolino. Dimenticando che quel Milan, inarrestabile, aveva offerto uno spettacolo di gioco, in quel giorno di maggio, uno spettacolo tale, da esser capace di uscire dallo stadio di Fuorigrotta dentro una autentica composta ovazione tributatagli dal pubblico napoletano. Un applauso infinito, quello che si tributa a coloro cui si riconosce una superiorità manifesta. Non ci furono incidenti, e neppure fremiti d’ira. Si riconobbe la sconfitta. Eppure si disse ogni cosa. Dissero che il Napoli si era offerto in sacrificio. In realtà, quel pomeriggio, gli azzurri subirono una lezione di calcio autentica. Tale che ancora se ne parla. Eppure si disse ogni cosa. E venne ripetuta, ogni cosa, come un mantra per lungo, lunghissimo tempo. Offendendo la forza di un avversario formidabile. Offendendo una squadra, quel Napoli, un Napoli come non se ne videro mai più da queste parti. Dissero mille cose. Come oggi dicono mille cose. Le stesse di allora. Dimenticando, che, così facendo, distruggono questo sport. E distruggono il Napoli. Certo, nessuno è depositario della verità assoluta. E nessuno può esattamente sapere cosa accada su un campo di calcio. Ma mi piace pensare che, quel pomeriggio di maggio, intriso di lacrime e dolore sportivo, il Milan fu più forte del Napoli di Maradona. Cosi come mi piace pensare che, un paio di domeniche or sono, nello stesso stadio che porta il nome di Diego, il Napoli si è piegato alla volontà degli dei del football. E solo a loro. Per il bene del calcio. Per il bene del Napoli.

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Stefano Iaconis

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