Leopoldo Luque: «NON HO UCCISO MARADONA»
Le lacrime, probabilmente, rientrano in una strategia difensiva.
Leopoldo Luque, neurochirurgo di Buenos Aires accusato di omicidio con dolo eventuale per la morte di Diego Armando Maradona, il più celebre dei suoi pazienti, è andato in tv il giorno dopo aver saputo che i magistrati di San Isidro hanno modificato il capo di accusa nei suoi confronti e degli altri sei professionisti, tra medici e infermieri, che avrebbero dovuto assistere il Pibe. Lo hanno invece abbandonato – secondo l’accusa degli undici specialisti incaricati dai magistrati di redigere una relazione – al suo tragico destino. E ora i sette rischiano una condanna da 8 a 25 anni di carcere. Non si tratta più di una gogna mediatica, quella che a inizio marzo aveva portato in piazza a Buenos Aires cinquemila tifosi di Diego per chiedere alla giustizia di punire quei medici e quell’avvocato, Matias Morla, che gestiva gli affari di Maradona. «Non è morto, lo hanno ucciso», urlavano. La condanna rischia di essere giudiziaria (e pesante), non solo sociale.
«IO POVERO COME DIEGO»
Luque è apparso nel programma Vino para Vos (Venuto per voi) condotto da Tomas Dente su Kzo. «Adesso non c’è più pace, né per Maradona né per me», ha detto con tono commosso. È partito dalle sue origini, l’infanzia povera e il padre morto quando lui aveva 17 anni. «Mi iscrissi all’università ma non volevo diventare un medico: volevo uscire dalla povertà», ha spiegato e questo potrebbe spiegare il suo approccio alla professione. Il primo incontro con Maradona cinque anni fa. L’ex campione del Napoli era appena rientrato da Dubai e aveva problemi fisici: si era allontanato dalla cocaina ma era alcolizzato. La situazione è stata, comunque, sotto controllo fino alla pandemia. «Perché allora il quadro è peggiorato sul piano psicologico e della dipendenza dall’alcol». Luque, che pur essendo il medico di riferimento di Maradona (lo dichiarò davanti al tribunale di Miami in occasione della causa del Pibe contro la ex moglie Claudia Villafane) si era distaccato dal Campione, aveva iniziato a preoccuparsi il 30 ottobre, giorno del suo sessantesimo compleanno. Una tomografia e la scoperta di un edema al cervello. Necessaria l’operazione d’urgenza ma l’avvocato Stinfale, a nome della famiglia Maradona, disse a Luque che non avrebbe dovuto intervenire lui. «Tuttavia andai in sala operatoria, come Diego desiderava».
«NON ERA IN AGONIA»
E, dopo quell’intervento, Maradona peggiorò. A Luque è stato chiesto nell’intervista perché non vi fosse un defibrillatore in casa. «La dottoressa Cosachov (psichiatra indagata, ndr) fece il contratto con la società Swiss Medical per il supporto a Maradona in quell’appartamento. Nell’autopsia si dice che Diego è stato per molte ore in agonia: conclusione errata, un paziente in agonia non sta in posizione orizzontale e Diego sembrava che dormisse». Luque non si trovava nell’appartamento del Barrio San Andres, a Tigre, quel 25 novembre. «Ero in sala operatoria quando arrivò la chiamata di Maxi Pomargo (assistente di Maradona, ndr). Mi disse che Diego era in arresto cardiaco, pensavo stesse scherzando ma su queste cose non si scherza».
Luque ha sottolineato, come fece in occasione del primo interrogatorio, che Maradona era ingestibile e non ascoltava i medici. Le lacrime del medico in tv sono quelle di «un uomo ferito». Vorrebbe «urlare, sì urlare» contro le conclusioni della commissione medica che lo ha messo nel mirino: «Mi fa male leggere che saremmo stati noi ad arrecare danni a Maradona perché non è così. Non è possibile per alcun motivo arrivare a congetture come quelle espresse dalla commissione. Diego è stato un uomo importante, con i suoi problemi, e io l’ho aiutato mentre molti gli avevano voltato le spalle. Sono orgoglioso di quello che ho fatto per Diego. L’ho rispettato, l’ho amato e adesso vorrebbero far vedere una verità che non esiste». Tra otto giorni inizieranno gli interrogatori degli indagati, poi il processo: sarà questa l’unica verità.
F. De Luca (Il Mattino