Il calcio, la sua arte, il gol. Racconta questo Fabio Quagliarella nella sua intervista a La Gazzetta dello Sport. Non manca, certo, qualche ricordo, soprattutto uno, napoletano…
Volevo quel gol, solo quello: «Esordio con il Napoli al vecchio San Paolo (30 agosto 2009, contro il Livron, Donadoni in panchina). Tiro da centrocampo e traversa piena. Sul momento ho pensato: “L’ultimo che ha fatto gol da qui si chiamava Diego. Quell’anno segnai undici reti. Sarei stato più contento se avessi fatto solo quel primo gol. E alla domanda: “Quanti gol hai segnato nel Napoli?”. Risposta “Uno. Da centrocampo. Fine”. Quella traversa mi dà un fastidio che neppure immagina».
Il mio campetto, la gioia: «Tornavo a casa in estate. Con un caldo feroce, mi ripresentavo con il mio pallone su quel campetto in terra battuta vicino a casa dei miei genitori, dove tutto aveva avuto inizio: un amico in porta, mio fratello e altri ragazzi che mi facevano i cross. E io calciavo, anche per due ore. Il gol è la mia malattia… Ancora oggi, se potessi, starei due ore a provare solo i tiri da lontano. L’immagine di un portiere che al massimo dello sforzo non riesce a bloccare il tuo tiro è la gioia più grande».
Il gol, la sua arte: «L’unica differenza rispetto a un pittore è che io non mi ispiro a qualcosa o a qualcuno, ma è vero che leggo in anticipo certe situazioni di gioco. Vivo per questo: il gesto tecnico di un attaccante è un concentrato fra istinto, balistica, coordinazione, dinamica, forza e… soprattutto fortuna. Ma se certi gol sono una costante, allora puoi dire di avere qualcosa di innato».
I miei gol: «Ho sempre segnato certe reti. Da piccolo, in cortile, facevo le rovesciate sull’asfalto, o tiravo dalla lunga distanza. Mi sono sempre spinto oltre. Lì pensi che sia tutto normale. Poi arrivato in un settore giovanile ho messo tutto a fuoco».
Il gol si insegna: «Mi piacerebbe. Ai giovani direi: “Sbattetevene dell’errore. Provateci”. Anche se ho l’uno per cento di possibilità, ci provo sempre. Sto facendo il corso da allenatore, si parla anche di questo. A 9-10 anni i ragazzi devono divertirsi, esprimere l’estro. L’oratorio, la strada, si parte da lì. Quando torno oggi a casa dei miei, invece, il cortile è vuoto. Nessun bambino».