Doppio ex Ottavio Bianchi: “Gattuso? Mi sembra una persona innamorata del suo mestiere”
Mi piacerebbe che si tornasse a valorizzare i nostri giovani
Visto dalla panchina. Anzi dalle panchine. Perché Ottavio Bianchi ha allenato entrambe: Napoli e Roma. Alla guida degli azzurri ha conquistato il primo storico scudetto nel 1987 e la coppa Uefa del 1989, poi l’avventura meno fortunata a Roma con i giallorossi prima di tornare a Napoli (anche in qualità di direttore tecnico).
E cosa vuol dire essere l’allenatore di due squadre così?
«Sono le due piazze più difficili per un allenatore. Non lo dico solo io, ma lo dicono tutti quelli che ci sono passati».
Come mai secondo lei?
«Si tende a mettere molta più pressione sugli allenatori. Questo avviene perché a Napoli e a Roma i calciatori sono dei divi ai quali viene perdonato tutto. Mentre l’allenatore diventa catalizzatore dell’attenzione. È una cosa che succede un po’ ovunque, ma a in quelle piazze in maniera esagerata. Se perdi una partita perché un tuo attaccante ha preso un palo a porta vuota, la piazza chiederà la testa dell’allenatore. È così da sempre, me lo diceva anche Pesaola durante le nostre lunghe cene napoletane».
Ma andiamo con ordine: Gattuso e Fonseca sono due allenatori a fine ciclo al di là degli obiettivi che centreranno in stagione: le sembra corretto?
«Non vorrei nemmeno parlare di riconoscenza. Perché il calcio è lo specchio della vita in cui viviamo. Se sei un allenatore sai un giorno sei lì e il giorno dopo no. Per mandare via un allenatore basta pochissimo».
E come si vive con questa consapevolezza?
«Si tratta di una situazione che ho vissuto praticamente tutti gli anni, e non mi ha mai fatto né caldo né freddo. Non mi interessava. Mi interessava solo lavorare sul momento. Certo, mi rendo conto che non sia piacevole perché sei solo come al solito. Un uomo solo al comando. Ma devo dire che questo non influiva sul mio lavoro. Poi mi rendo conto che ogni reazione è personale. Nel mio caso, forse, sono stato aiutato da una gavetta anche da giocatore quando avevo visto cosa avevano sopportato i miei allenatori».
Andando nello specifico: che idea si è fatto di Gattuso?
«Mi sembra una persona innamorata del suo mestiere. Ho letto delle polemiche che ci sono state e questo sicuramente non ha influito positivamente per la sua gestione. Se non sei abituato diventa un bel problema».
Mentre Fonseca?
«Lui ha avuto anche problemi con i giocatori. Dalla sua ha avuto la mezza giustificazione data dal cambio societario. Ne ho vissuti anche io in carriera e posso dire con certezza che è un fattore che influisce. Perché dalla sera alla mattina devi relazionarti con nuovi dirigenti che hanno nuove idee».
Anche per questo adesso Napoli e Roma si giocano un posto in Champions League?
«Ammetto che a inizio stagione mi sarei aspettato molto di più dal Napoli. Poteva essere l’anno buono considerando il calo fisiologico della Juve. E l’Inter prima di un mesetto fa non sembrava così irresistibile. Sarà che sono molto legato al Napoli, ma per me parte sempre tra le favorite per il titolo, ma quest’anno ha avuto un andamento molto altalenante. Solo da poco sembra essere rimesso in carreggiata».
Mentre si aspettava un tale flop in Europa delle italiane?
«Inutile girarci attorno: il calcio italiano è mediocre. Sono anni che lo diciamo. Anche perché gli italiani giocano poco e gli stranieri che arrivano non sono quelli di 20 o 30 anni fa. Prima i migliori del mondo venivano a giocare in serie A, adesso vanno altrove. Non dobbiamo stupirci di nulla se nel nostro campionato fanno la differenza Cristiano Ronaldo e Ribery che sono nella fase calante della loro carriera. E poi: i giocatori italiani che sono andati all’estero hanno giocato in pochissimo. In tantissimi vanno e poi tornano, perché dettano legge qui ma non riescono ad imporsi fuori».
Rimedi?
«Mi piacerebbe che si tornasse a valorizzare i nostri giovani. Trovo inammissibile che ogni squadra non abbia almeno 7-8 giocatori cresciuti nel settore giovanile. Il mio Napoli aveva 7-8 ragazzi di Napoli che erano fantastici: ti davano una mano, sicurezza, anche se non giocavano».
B. Majorano (Il Mattino)