La Balilla 508 inchioda la frenata un momento prima che il malcapitato pedone venga travolto. Il muso nero cromato scintillante dell’automobile si arresta ad un metro da lui. Poggia le mani sul cofano a cappa di camino, gli occhi nel lunotto, strabuzzati. Il feltro gli vola via nel vento dell’inverno napoletano, che danza allegro tra i portoni di via Toledo. “All’anema toja! Ma nun guarde addo vai?” Una piccola folla si sta radunando sul marciapiede della principale via della città, appena fuori la pasticceria Caflish. Il pedone si porta la mano al cuore, impallidendo per lo spavento improvviso. Il portello dell’elegante auto si spalanca dal lato guida e l’ uomo al volante, con un balzo elastico, salta fuori dall’abitacolo. I capelli biondi con la scriminatura al centro, impomatati con la brillantina, i calzoni alla zuava, la giacca di un beige acceso e gli stivali neri lucidati a specchio, allarga le braccia in un gesto di scusa. Dalla folla parte un grido: “ E’ isso, guardate, è Sallustro, è Attila Sallustro!” In un baleno la piccola folla aumenta, con la gente che accorre venendo fuori anche dalla pasticceria, con tra le mani un babà ed una tazza di caffè. “Sallustro, Sallustro!” Il grido si ripete mentre su via Roma, al centro della città, il traffico si ferma. Perchè Attila, a Napoli, è un “divo”. Idolatrato. Assieme ai suoi due compagni acquistati dal presidentissimo Ascarelli, Mihalich e Vojak, forma un tridente d’attacco favoloso. La domenica precedente, il Napoli, guidato da Sallustro, autore di due reti, ha battuto la grande Ambrosiana Inter, che si avvia a fregiarsi del titolo di campione d’Italia. Un trionfo. L’ Ambrosiana di Peppino Meazza, il nuovo golden boy del calcio italiano che Vittorio Pozzo, ct della nazionale azzurra, ha preferito ad Attila come centrattacco, dopo sole due partite, scatenando le ire della tifoseria partenopea. Sallustro è arrivato a Napoli nel 1920 assieme alla sua famiglia: padre, madre e due fratelli. Il piroscafo ha fatto, per una volta, il viaggio inverso. Dalle Americhe a Napoli. Il calcio, Sallustro, lo ha incontrato per caso. Un medico, ad Asunción, Paraguay, dove è nato e vissuto fino ad allora, gli ha consigliato lo sport per curare una reumatide terribile che lo ha colpito da bambino. E lui ha iniziato a tirare calci ad un pallone. A Napoli nella villa comunale. Nelle mattine e nei pomeriggi delle infinite partite con il mare di fronte a fare da spettatore, la scuola è troppo faticosa per quel ragazzino che ha scoperto la meraviglia di un pallone. E come testimone il lungomare Caracciolo fino a sera, illuminato dalle lampade a petrolio, accese da inservienti che sostano a guardare le prodezze di quel ragazzo dalle movenze apollinee. Perche’ un Apollo pare, con quella massa di capelli ricciuti, biondi, e gli occhi neri. Attila rientra a casa con le scarpe deformate da palloni di cuoio dalle cuciture sdrucite. Quelli che oggi si vedono solo nelle diapositive. Impareranno a chiamarlo il “veltro”. Il levriero. Per via di quella struttura fisica sinuosa, scattante, dai fianchi stretti e la falcata regale. Nella villa comunale lo scopre Mario De Palma. Sigaro tra i denti, guance rubizze, talent scout del meridione con una conoscenza del calcio e dei vini eguale. Un antesignano dei procuratori multiforme. De Palma lo porta a giocare tra le file dei ragazzini dell’Internaples, la seconda squadra della città. La prima è il Naples. Quando la fusione delle due squadre porta alla nascita del Napoli, nell’ estate del 1926, Ascarelli lo mette immediatamente a disposizione di William Gatbutt, lo spigoloso e girovago tecnico inglese, primo allenatore degli azzurri. Sallustro non esplode subito. Nei primi due anni, nei quali il Napoli partecipa al girone sud del campionato nazionale di football, colleziona un disastro dietro l’altro, finendo per salvarsi unicamente grazie a due ripescaggi che gli permettono di rimanere nell’elite nazionale della lega nascente, l’ uomo venuto da Asunción segue la parabola senza luci della sua squadra. Segna poco. Sebbene il suo modo di prendere palla e filare verso la porta in un continuo susseguirsi di dribbling, finisca inevitabilmente per incantare una platea eternamente suggestionata dal calcio brillante. Anche la stampa sportiva lo nota. La pochezza tecnica di una squadra all’alba della sua storia, inoltre, non lo favorisce. Ma poi arrivano Mihalich e Vojak. Due fuoriclasse. E’ la svolta. Il Napoli incomincia a splendere. Fu lo Stadio Partenopeo, l’arena presso la Ferrovia, l’impianto che per primo vide le gesta di quella squadra, è in quel catino che gli azzurri mietono vittime illustri. Una dietro l’altra. Squadre come la Juventus ed il Milan vengono sconfitte, anche sonoramente. Sallustro diviene il faro di una squadra che racchiude attorno a sé l’amore del meridione e che si batte contro lo strapotere del nord. Sono giorni di sfida. Di eterni dissapori. In un momento nel quale anche il calcio favorisce l’ eterno dualismo nord-sud. La stessa disputa per un posto da titolare nella Nazionale con Meazza assume toni epici che scavalcano la semplice rivalità calcistica. Attila Sallustro non è un uomo schivo, anzi. E’ un personaggio che che ama i riflettori. Gli piace la notorietà, e, sebbene mai antipatico negli atteggiamenti, è uno spirito competitivo. Forse per questo l’Ambosania Inter sarà una delle sue vittime preferite. Le segna praticamente sempre. Ogni volta che incontra Meazza si scatena. Vive una vita fatta di meraviglie e di onori. Alla domenica, dopo le partite del Napoli, sotto il suo balcone della bellissima casa alla Riviera di Chiaia, dove una superstite della sua discendenza ha abitato fino a qualche tempo fa, si raduna a una folla di tifosi che lo chiama a gran voce. E sono applausi, scroscianti. Sallustro appartiene al popolo. Segna grappoli di gol per quel popolo. E di quel popolo è il primo eroe calcistico. Curioso il fatto che non guadagni nulla. Perche’ Attila è l’ ultimo fuoriclasse degli amatoriali in uno sport che si avvia a muovere l’ economia del paese in una escalation irrefrenabile. Il padre di Attila, Gaetano, non ama infatti che suo figlio venga pagato per svolgere una attività sportiva. Lo trova disdicevole. Incredibile, ma vero. Una questione di principio. Le origini della famiglia sono modeste, si sono sempre guadagnati il pane, e suo figlio si diverte a giocare. Inoltre, il calcio, lo rende celebre. Non se ne parla di soldi. E così accade che Ascarelli ne ricompensi i servigi con orologi, cravatte, abiti, cene. Qualunque cosa. La fiammante Balilla 508 alla guida della quale Sallustro sta per investire il pedone, su Via Roma, nella mattina descritta dapprincipio, è un dono del presidentissimo per una storica tripletta realizzata a Modena, l’anno precedente. Un anno eccezionale, nel quale il Napoli ha chiuso ad un incredibile quinto posto. Ottenuto grazie, soprattutto, ai gol di Sallustro. Attila si avvicina all’ uomo che raccoglie il cappello, la preoccupazione ancora dipinta sul viso. Intorno a lui la gente lo sfiora, gli sorride, lo chiama. “ Tutto a posto? Scusatemi, siete sbucato all’ ultimo, non vi avevo visto“. L’ uomo lo guarda, lo riconosce anche lui, si apre al sorriso. “Ma state pazziando? Nun ‘o dicite nemmeno, la colpa è mia. Se volete, Sallu’, ripartite, e mettiteme pure sotto ‘e rote, voi potete fare tutto quello che volete”! “Sallustro! Sallustro!” Via Toledo si ferma per lui. Per Attila Sallustro, il divo di Napoli.
Stefano Iaconis