La storiella, narrata per molti anni, una delle tante che affrescano la parete dell’aneddotica sul calcio Napoli, vuole che Achille Lauro, il presidentissimo che entrava in campo sventolando un fazzoletto, e spargendo sale beneaugurante sul campo e finanche sulle panchine, lo avesse acquistato soltanto guardandolo in foto. Tirò fuori l’altrettanto leggendario fazzoletto imbevuto della sua costosissima acqua di colonia, ed annusandolo puntò il dito sulla foto. Una tra decine di altre. Dissero che lo prese perchè era di colore, ed avrebbe scatenato la paura nelle difese avversarie. Fu così che per trentamila dollari, Jarbas Faustinho, detto “Canè”, lasciò la sua Rio, approdando in quella che sarebbe divenuta la “sua” autentica casa. Napoli. Leggende delle quali lo stesso Canè ha sempre sorriso. Ma a Napoli le leggende divengono spesso parte di una verità affidata alla suggestione. Il soprannome lo doveva a sua madre, Imperialina, che lo soprannominò Canè in omaggio alla “caneca”, la tazza del latte che il bambino Faustinho teneva sempre tra le mani. Negli anni in cui il Brasile mostrava il suo talento calcistico, attraverso la sua formidabile nazionale, campione del mondo in Svezia prima, ed in Cile poi, Canè fu uno dei primi giocatori di colore ad approdare in Italia. Nel ’62, assieme a Germano, che andò a vestire la maglia del Milan, e Jair, favolosa ala destra di una ancor più favolosa Internazionale, la leggendaria squadra del mago Herrera. Il Napoli aveva già goduto, tra le sue fila, della presenza di un calciatore mulatto, La Paz. Ma era stato quest’ ultimo una meteora improvvisa, con appena una decina o poco più di presenze in maglia azzurra. Canè fece, invece, la storia del club. Arrivò in città senza che il duo Monzeglio Pesaola, alla guida tecnica della squadra, fosse stato avvisato del suo acquisto, questo è un altro gustoso retroscena, legato al brasiliano. Arrivò come centrocampista, ma fu subito chiaro, da principio, che aveva devastanti mezzi tecnici. Fu così che venne dirottato sull’ala da Pesaola che ne intravide doti da attaccante. L’ amore deflagrò immediato. Il sorriso franco, aperto, la dolcezza nei modi, la sua eterna disponibilità nel fermarsi per un autografo, una foto, e sopra ogni altra cosa, il suo futèbol bailado, che si esprimeva nella capacità di danzare sulla palla con giocate di finissimo talento, gli diedero il passe partout per l’ affetto della gente. Sebbene nel suo secondo anno in azzurro, il Napoli conoscesse l’onta della retrocessione, il rapporto con la città non mutò. Canè si rese tra i protagonisti della immediata risalita nella massima divisione. A suon di triplette e doppiette. Una delle quali, quella a Parma, nel 3 a 1 finale, sancì il definitivo ritorno in A. Furono anni, quelli dopo il ritorno nella massima serie, nei quali il Napoli visse gomito a gomito con l’ elitè del calcio della penisola. A Canè si affiancarono Altafini e l’ ultimo Sivori. Quello che sotto l’ ombra del Vesuvio visse anni Maradoniani. Quello che nella fantasia dei tifosi incanutiti dal tempo rivisse nel piede sinistro del pibe de oro. Quarto nel ’66, con 44 punti, il Napoli , nell’annata ’67 -’68, arrivò secondo, dietro il Milan. Fu il miglior risultato ottenuto dal club nel dopoguerra. Andato via Lauro, le redini del club furono però affidate a Ferlaino. Questi, come mossa principale del suo mercato, dopo il divorzio con Pesaola, dirottò Canè al Bari. Un durissimo colpo per il brasiliano, che aveva frattanto trovato anche l’amore, sposando una napoletana, il quale apprese la notizia in aereo. Ne fu amareggiato così tanto che ebbe a dire “Se non fossi stato sposato, sarei fuggito in Brasile”. Ma tornò ancora, a Napoli, dopo tre anni nel capoluogo pugliese. E si prese una rivincita sonora, a suon di giocate e gol. Era più forte di prima. Il suo dribbling divenne irresistibile. Sull’ ala destra del campo, nel Napoli che si apprestava a scrivere l’epopea di Vinicio, regnò incontrastato per due stagioni. “Didì, Vavà, Pelè, site ‘a guallera ‘e Canè”, gridava il popolo napoletano, in uno slogan affatto volgare, pieno anzi di riverente amore verso un giocatore che con la sua arte tutta brasiliana, si prese i cuori dei tifosi. Una celebre doppietta alla Juventus, nell’ Ottobre del ’72, con Faustinho fresco di rientro in un San Paolo delirante, mise la città ai suoi piedi. Visse gli ultimi scampoli napoletani, dalla panchina, nel Napoli più forte e famoso, almeno fino ai giorni dello scudetto. Quello di Vinicio, appunto. Ancora una volta, come già anni prima, non coronò il sogno della città. Finita la carriera, peregrinò per la Campania, come tecnico. In una sarabanda alternante di squadre di provincia, sopra tutto nelle serie minori. Ma rimase per sempre legato a Napoli, dalla quale non andò più via. Lentamente i suoi capelli sono imbiancati, ma la sua partecipazione emozionale nelle vicende calcistiche del suo Napoli, è rimasta intatta. Il suo sorriso sempre dolcemente eguale. Un brasiliano di partenope. E’ rimasto tra le braccia del nostro ricordo. Stretto stretto. Come quella sua tazza di latte, stretta da bambino sempre nelle mani.
Stefano Iaconis