Canè: «So cosa ho dato al Napoli e lo sanno anche i napoletani. Che orgoglio essere su quel dipinto»

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Cané: «Ringrazio chi ha pensato di inserirmi nella galleria dei calciatori che hanno scritto la storia del Napoli. Una bella commemorazione in vita»,

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scherza Jarbas Faustino detto Cané. Brasiliano di Rio de Janeiro, ha 81 anni e da quasi sessanta vive a Napoli. «Arrivai nel 62 e mi sono stabilito qui, indipendentemente dalle tappe della mia carriera. Mia moglie è napoletana, Napoli e il Napoli sono qualcosa di particolare per me ed ecco perché sento di ringraziare gli autori dei murales nella stazione della Cumana. È una bella iniziativa, un riconoscimento a chi ha sentito l’azzurro non soltanto una maglia. In questo momento, in particolare, penso a un compagno».
Chi?
«Antonio Juliano, che è stato uno dei calciatori che ha giocato più partite in questo club e ne è stato a lungo il capitano. Più giovane di me, venne aggregato alla prima squadra allenata da Pesaola e convinse il Petisso a dargli fiducia e a schierarlo una domenica a Foggia. Entrò, fece una grande partita e non uscì più. Ho sempre ammirato il suo carattere e la sua professionalità che lo hanno portato a giocare tre Mondiali. Antonio è stato un grande calciatore eppure era fischiato al San Paolo. Un po’ come è accaduto per Insigne, che io ho conosciuto da ragazzino perché mio figlio Ivan è stato il suo allenatore nelle giovanili azzurre».
Che ricordo ha di quel ragazzino diventato ora capitano del Napoli e punto di forza della Nazionale?
«Bravissimo ma non aveva forza fisica perché andava all’alba a dare un mano al padre che aveva un carrettino di frutta. Dissi a mio figlio di avere pazienza perché Lorenzo avrebbe sfondato».
Cosa è stato per lei il Napoli?
«La squadra che mi ha consentito anche di compiere il passaggio da ragazzo a uomo, in questa città ho raggiunto la piena maturità. Devo tutto a Pesaola, il primo allenatore. Mi spiegò che non avrei giocato subito ma che sarebbe arrivato il mio turno. Anni prima, aggiunse, era accaduto anche a lui. Senza Pesaola non avrei fatto quella carriera e non sarei qui. Sono stato vicino a Bruno negli ultimi giorni della sua vita insieme con il professore Barone, primario del Fatebenefratelli».
Lei ha giocato con due fuoriclasse negli anni Sessanta, Altafini e Sivori. 
«Per la verità, sono loro ad aver giocato con me perché io ero già qui… Era un grande Napoli, quello, e mi fa piacere che qualche tempo fa in una diretta su Facebook lo abbia ricordato Altafini, parlando di Sivori, Juliano, Bean e del sottoscritto».
Però quel Napoli non vinse lo scudetto.
«C’era la squadra ma non c’era la società. All’epoca i tifosi volevano che si vincesse con Juve, Inter, Milan. Noi ci concentravamo sull’impresa con la grande avversaria ma poi magari perdevamo a Varese. Negli anni successivi sarebbe arrivata la società, a cominciare dalle stagioni di Vinicio, e ci sarebbero stati i risultati. Grande Luis, il suo carattere era come quello di Gattuso: un po’ permalosi…».
Lei è stato il primo allenatore di colore in Italia: il razzismo cosa è stato nella sua carriera?
«Nulla perché non l’ho mai avvertito. Rio è come Napoli, la pelle non fa la differenza. Quando arrivai dissero che Lauro mi aveva scelto perché ero il più brutto in una foto e avrei spaventato gli avversari: una bugia, ovviamente. Ho avuto una carriera importante da calciatore e da allenatore ho vinto cinque campionati con squadre di C campane: non poco».
Rimpianti?
«Non avere allenato il Napoli. Ho fatto il tecnico nel settore giovanile e a questa storia dedicherò un capitolo nel mio libro. Io non ho mai rincorso un riconoscimento. So cosa ho dato al Napoli e lo sanno anche i napoletani che mi hanno seguito in quelle stagioni. Riempivamo lo stadio ogni domenica, c’era un grande rapporto con la tifoseria che sognava di raggiungere quei risultati poi arrivati negli anni di Maradona».
Vi siete conosciuti?
«Sì, due anni dopo il suo arrivo a Napoli. Accadde per caso al Centro Paradiso. Dissi a Diego che io ero arrivato a Napoli nel 62 quando lui aveva due anni e lui rispose: Ma io ti conosco, ho visto le tue foto in sede. Parlammo dei miei trascorsi da calciatore, gli dissi che avevo l’età di Pelé e che avevo a casa una foto scattata con lui a New York in un’amichevole tra il Santos e il Napoli. Gli augurai di ripetere quella carriera. È stata mia moglie a darmi la notizia della morte di Diego: sono rimasto cinque minuti paralizzato sul divano». Intervista a cura di F De Luca (Il Mattino)

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