Amarcord – Rubrica di Stefano Iaconis: “Il mito in una stanza”

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Erano anni di note che salivano dai vicoli, narrando della città. In un modo nuovo. Parlando delle piccole cose di ogni giorno. La musica dell’anima, e non delle suggestioni di profumi e colori. Anni nei quali quella musica viaggiava su di un campo di calcio. Affidata ad una squadra dalla maglia azzurra, guidata da un bardo argentino. Che cantava football. C’è un immagine, dento un video, sbiadita dal tempo. In fondo trentacinque anni sono tanti, tantissimi. Come guardare, con tenerezza, una di quelle vecchie fotografie nelle quali, qualcuno che ti è caro, viene ritratto in calzoni corti e sandali con l’ occhiello. Gli occhi nell’ obiettivo, un babbo Natale da strada che lo abbraccia. C’è un’ immagine, dentro un video che fa quell’ uomo normale. Lo rende umano. I colori sfumano, con il tempo. Tremolano come asfalto rovente all’ orizzonte delle nostre mille memorie. Non riesci nemmeno a capire se quell’ uomo indossi un pullover. Se al collo abbia una sciarpa. Di certo è in jeans. La mano poggiata al tramezzo del muro, il bacino che ondeggia al ritmo della musica. Quel suo bacino inconfondibile, tutt’ uno con le gambe prodigiose, dai muscoli guizzanti e potenti. Che nell’ ultimo saluto che ci ha rivolto, da un televisore, dopo una maledetta operazione, avevano bisogno di un paio di stampelle cui appoggiarsi, per muovere piccoli passi lenti. Con di fianco due persone a sorreggerlo. Una pena infinita, per i nostri occhi innamorati. Nel video lo riconosci immediatamente. Anche se appare così “normale”, in quell’ appartamento dove il mito suona alla chitarra, seduto ad un divano, calamitando l’attenzione di tutti sull’arpeggio inconfondibile del suo strumento. Che è la voce di Napoli. Il mito, Pino Daniele. I capelli come una nuvola sale e pepe a spandersi intorno a lui, quel suo tono stentoreo, nasale, che custodisce il segreto di una città. Di cui solo lui riesce a percepirne le note da cantare. E poi l’ altro mito. Quello che incarnava quel segreto e lo divulgava, portandolo in giro per l’Italia, dentro un’ampolla azzurra, che conteneva un’ immagine pagana, quella di Partenope, cui si inchinavano i cattolicissimi Re della nazione calcistica. Maradona quella sera era un ospite. Se ne stava in disparte, a ritmare la musica con quella mano, naturalmente sinistra, sul muro, ed il suo bacino ondeggiante. Che sul prato sbalordiva il mondo, quando si inclinava per un dribbling impossibile. Uno dei tanti, mentre il cantore delle melodie delle anime napoletana, pizzicava le corde di una chitarra. Traendone fuori il sussurro dei vicoli, e di persone “normali”, figli della città, con i loro disagi, i loro problemi. La loro disperazione, il loro grido. Quella sera, Diego, guardava. Da un angolo. E capiva. Cosa fosse Napoli, dentro quella musica senza fronzoli. Senza alcun arrangiamento. Semplice, come semplice è il sentimento di questo popolo. Maradona trasferì quel sentimento sul campo di calcio. Lo cullò dentro l’apoteosi orchestrale del suo sinistro. Condusse per mano quella musica dappertutto. Lui che era un ragazzo che sognava solo di essere “normale”, forse, fuori dal suo talento. La sua condanna, la sua dannazione. La nostra eterna bellezza. Mai normale, eppure così normale. Come Lui.

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