Diego, dietro Maradona. Il film che il premio Oscar Asif Kapadia gli ha dedicato è nato così, dall’innamoramento di un appassionato del gioco più bello del mondo per il giocatore più grande del mondo. Con l’idea di raccontare la miscela incendiaria che ha permesso al dio del pallone di essere un vincente sul campo e una vittima delle proprie fragilità nella vita. «Diego era il re del caos», ha detto il regista angloindiano di «Amy» e «Senna». E ora che tutto è finito, che il re ha smesso di combattere, gli sembra irreale che il leggendario protagonista di tante sfide impossibili non sia riuscito a vincere la sua ultima battaglia. «Non riesco a credere che sia morto», ammette al telefono da Londra.
Che cosa la colpisce di questa fine improvvisa?
«Sapevo da tempo che non stava bene e che era stato operato al cervello, ma pensavo che ce l’avrebbe fatta. Perché Maradona era Maradona, ce la faceva sempre. Quando mi ha chiamato un amico da Buenos Aires per darmi la notizia, ho avuto uno shock. E ancora non mi passa. È una cosa difficile da digerire».
Per girare «Diego Maradona», andato in onda ieri sera su Raitre, lei lo ha intervistato in diverse occasioni. Com’erano i vostri incontri?
«La prima volta sono andato a casa sua a Dubai, da solo con il traduttore, poi ci siamo rivisti tre o quattro volte ancora e lì ho capito quanto era mutevole la sua personalità. Diego poteva essere molto amichevole, accogliente, generoso, ma anche il suo contrario, se era stanco o di cattivo umore. Era speciale anche in questo».
Ha un ricordo particolare di quelle chiacchierate?
«Quando ha accettato di incontrarmi, non pensavo che avremmo cominciato subito a registrare, ero senza il fonico e ho dovuto fare tutto da solo. Per sistemare il microfono mi sono seduto a terra. Poi mi sono reso conto: ero ai piedi di Maradona, davanti al suo leggendario sinistro. Lui era in calzoncini, aveva ancora gambe possenti come due tronchi di albero… Ho smesso di ascoltarlo, ero come ipnotizzato. Gli ho guardato la caviglia massacrata a Barcellona e ho avuto l’impulso di toccarla: È questa?, gli ho chiesto. Ma lui si è ritratto, non gli piaceva essere toccato».
Un esordio piuttosto complicato.
«E non è stata la cosa più difficile. Dovevo fare un documentario su un ragazzo che dalla periferia poverissima di Buenos Aires arriva a Napoli e si carica sulle spalle il riscatto di una città: ritrovare quel ragazzo in un uomo che aveva conosciuto le contraddizioni estreme della vita, ecco la sfida più grande».
Che cosa ha scoperto della persona, dietro il personaggio del Pibe de oro? Nel film il suo preparatore atletico Fernando Signorini dice: «Con Diego andrei in capo al mondo, con Maradona non farei un passo» per raccontare la sua anima divisa in due. È questa anche la sua impressione?
«Mi sono trovato al cospetto di una leggenda e ne ero consapevole. Ma nel documentario ci sono molti primi piani, da quello sguardo traspaiono la sua umanità e le sue insicurezze. Diego aveva il dono meraviglioso di entrare in sintonia con gli altri, per cui tutti, anche gli spettatori britannici che certo non lo amavano per come aveva battuto l’Inghilterra al Mondiale, finiscono per provare empatia per un uomo che è dovuto sopravvivere alla sua leggenda».
La fragilità ha finito per essere parte della sua grandezza?
«Sì, in un certo senso è così. Anche i personaggi famosissimi, abituati a stare sotto i riflettori, possono non avere il pieno controllo di sé, ma di solito cercano di nascondere le proprie debolezze. Diego aveva il coraggio e l’impudicizia di mostrarsi com’era, senza sconti».
Lo ha più incontrato dopo la fine delle riprese?
«L’ho cercato tante volte, il film racconta anche i lati oscuri della sua personalità e mi faceva piacere vederlo assieme a lui. Mi proposero di mostrarglielo durante i Mondiali di Mosca, ma pensai che non era l’occasione giusta, non avremmo avuto sufficiente concentrazione. Sbagliai. Avevo avuto la mia piccola finestra di opportunità e non l’avevo sfruttata. Lui e il suo staff erano già andati oltre».
Come legge, da artista, il lutto globale che sta accompagnando la sua scomparsa?
«Me l’aspettavo. Diego è stato il più grande calciatore di tutti i tempi e un mito vivente. Ha incontrato Papi, presidenti e rockstar, ha preso posizione per gli ultimi del mondo, a modo suo si è battuto contro le ingiustizie sociali. È un’icona per il mondo intero. E poi sono convinto che a renderlo così famoso sia stato proprio il periodo napoletano».
Perché?
«Perché ha incarnato la sfida epica del Sud contro il Nord e l’ha vinta, come nessuno ha saputo fare prima e dopo di lui». A cura Titta Fiore (Il Mattino)
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