CdS – Insigne, uno che non ha mai sbagliato uno stop in vita sua

Lui, Napoli e la superbia che tradisce

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Così scrive Alberto Polverosi nel suo editoriale sul CdS

 

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“È stato Johan Cruyff a inventare sia il concetto sia la parola per definirlo, el entorno, cioè l’ambiente, la piazza, l’idea che un contesto nel quale si muove una squadra di calcio arrivi a influenzarne il rendimento, arrivi a ripercuotersi sugli uomini. Quando a sipario calato su due delle sue partite più belle in carriera, giocate con la maglia numero 10 che in Nazionale fu di Rivera e Baggio, dice di non aver mai avuto un buon rapporto con la piazza di Napoli, Lorenzo Insigne dà l’idea di sapere bene dentro di sé che cosa l’entorno gli ha tolto in otto stagioni più uno spicchio, che cosa l’abbia frenato dal raggiungere la maturità solo all’alba dei trent’anni, adesso, in modo così clamorosamente tardivo per essere uno che non ha mai sbagliato uno stop in vita sua. Lorenzo Insigne è da tempo un malinteso. Ancora oggi molti si stupiscono della sua disponibilità a seguire un avversario fino nella propria metà del campo, eppure si tratta di un esercizio che gli appartiene da almeno 7 anni, quando nel 4-2-3-1 di Rafa Benítez già era possibile vederlo rientrare fin sulla linea dei terzini. Non è stata l’etica del lavoro a mancargli, non è stata l’attitudine alla fatica. Non è mai stato un giocatore indolente. È stato casomai un giocatore testardo, incline a credere che la giusta lettura delle piccole cose del calcio fosse la sua, che l’angolo giusto dal quale guardare una partita e interpretarla fosse solo quello in cui si trovava. Quando Ancelotti ha provato a portarlo oltre l’orizzonte della partenza da sinistra e del tiro a giro, pure con lui s’è irrigidito. Ci sono geni di zolfo che accettano di far qualcosa secondo le persone dalle quali se la sentono chiedere. Non è l’inerzia la cifra di Insigne, eventualmente quella che nella lingua napoletana si chiama inzìria. Potrebbe tradursi con capriccio ma sarebbe assai parziale, siamo invece nel campo di un’ostinazione, una cocciutaggine urgente che forse fa riferimento a un etimo latino, in + ira, oppure a un’origine greca, sun-eris, e dunque: andare in ira oppure dissidio.
Contro chi? Questo è il punto. Contro i suoi. Contro la propria parte che in lui non s’è immedesimata. Perché Napoli è almeno un milione di posti diversi che i suoi abitanti sentono individualmente di rappresentare in modo esclusivo, ciascuno più Napoli di tutte le altre. Perché la radice di provincia di Lorenzo è stata spesso trattata con sufficienza. Perché Napoli è città che si riconosce più dai fischi che dagli applausi, come per primo sperimentò Antonio Juliano. Insigne ha reagito indisponendosi, impuntandosi, senza la solarità del sorriso di un Fabio Cannavaro, senza l’approccio ironico e disincantato di un Ciro Ferrara, senza avere i mezzi istruiti per reagire alla prigione sentimentale della ruffianeria, cara a una platea che si lega con meno fatica a uno straniero che viene, annusa, capisce e si dà. Quello di Insigne è invece un talento accigliato. Scriveva Francesco Durante ne I napoletani (Neri Pozza, 2011) che «da questo gran parlare che si fa nel mondo, deriva anche una certa superbia di Napoli». E due superbie non si incontrano. Come due bisogni d’amore non si sposano, si scontrano”. 

 

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