Molti hanno fatto qualcosa per Baggio, soprattutto quelli che lo hanno consegnato con onestà ai tifosi raccomandandone le qualità. Poi i tifosi veri che da lui sono stati conquistati per sempre. Nel mio piccolo, ricordo che a metà degli Ottanta mi trovai a Venezia per il Premio Diadora – giurato fondatore – e uno dei fratelli Danieli – proprietari – mi suggerì, timido, «c’è un ragazzo del Vicenza che è una meraviglia, si chiama Roberto Baggio». Nè parlai con qualcuno, «È un bel giocatorino sfigato» – mi rispondevano, elencando gli incidenti che aveva subito.
Poi trovai il collega della Nazione di Firenze, Raffaello Paloscia: «Italo, l’ho visto, è un grande, lo voglio alla Fiorentina». Venne l’ora del voto, gran parte dei colleghi in giuria non vedeva l’ora di fare un giro per Venezia o di cogliere le delizie dell’Hotel Danieli di cui eravamo ospiti: candidammo Baggio e ci battemmo per lui finché «e va bene, tenetevi ‘sto Baggio». Vinse il Premio Diadora, molto importante. I Danieli furono felici. Firenze se lo ebbe, contrastato eroe.
Roberto Baggio è un Idolo degli italiani non solo per quel che ha vinto ma anche per quanto ha saputo perdere. L’unico “rigore” che i suoi connazionali rispettano è quello che l’allora Codino sbagliò. Negandoci il quarto titolo mondiale, a Pasadena, nel 1994, contro un Brasile raccogliticcio. Lui si mise le mani sul volto, gli altri sparsero lacrime. Mille Deamicis consacrarono quel dramma su giornali e tivù, l’Italia si pianse addosso, Dalla Lucio ne ricavò una canzone, fu chiaro a tutti che quel maledetto pallone aveva trovato un altro bersaglio, Una Porta nel Cielo. Gol, naturalmente.
Va così nel Bel Paese che ha disseminato le città e i borghi di vie intestate ai Grandi Sfigati benvissuti e malfiniti. Roberto Baggio è un eroe del Risorgimento, un Fratello Bandiera che ha conquistato i cuori delle mamme e dei padri per somma di virtù spirituali (buddismo compreso) e la fantasia dei figli per i successi e i denari di un ventennio straordinario. Piace, e per sempre piacerà il suo ricordo. Perché possiede in quantità illimitate fantasia e sopportazione. Si è servito della prima per confermare la sua indiscussa supremazia nel gioco del calcio e della seconda per illuminare lo scenario della comune ingiustizia, ben nota ai cittadini illustri e meschini. Ha dovuto infatti giocare, sudare, segnare e soffrire in sette squadre per emergere nonostante quattordici allenatori abbiano tentato di impedirglielo per non ammettere la propria incapacità a governare il Genio.
In fine di carriera è arrivato in una città che amò combattere per gli Ideali da leonessa, Brescia, agli ordini di un presidente, Gino Corioni. Che ideali calcistici ne aveva e di un allenatore romanesco, Carlo Mazzone. Che ha colto intelligentemente il piacere di avviarsi alla pensione accompagnato dalle esibizioni eccelse di un poeta.
Se, girando il mondo, trovaste difficoltà ai confini di questo o quel Paese esotico, il nome di Baggio potrebbe togliervi d’impaccio: vale un visto sul passaporto, come ieri quello di Pablito Rossi, l’ambasciatore della nostra furberia, e di Totò Schillaci, un altro italiano che conquistò il mondo con la poesia degli occhi e dei gol. Se capite e amate Roberto Baggio appartenete a un altro calcio, forse a un altro mondo. Per me è il fratello buono di Maradona. Fonte: CdS