FISCHI
Adesso nessuno si nasconde più. A Castel di Sangro glielo hanno detto chiaramente dalle curve, «vattene». E pure nel finale della passata stagione, dopo qualche prestazione scialba, è diventato l’argomento di demolizione (mica di discussione). Però prima che si entrasse in questo prolungato braccio di ferro per il contratto, che De Laurentiis gli ha proposto di rinnovare e che invece è rimasto lì, infilato in quella forbice enorme tra offerta e domanda, il venticello della calunnia l’aveva già sfiorato.
Il Milik di due anni fa, quello al quale Ancelotti (credendoci) sussurrava in allenamento «puoi fare trenta gol a stagione», si è fermato in verità a venti, neanche pochi, tutti su azione, solo che Napoli aveva già smesso di contarli ed aveva deciso di “pesarli”. L’accusavano di segnare con le piccole, di sfuggire agli appuntamenti importanti, di essere quasi vittima di una sorta di complesso di inferiorità, almeno fino a quando, all’Olimpico di Roma, il 17 giugno, incurante delle cattiverie e delle allusioni, ma anche di essersi promesso alla Juventus, lui s’è preso il pallone, è andato sul dischetto, ha guardato Buffon negli occhi, ha arcuato il sinistro ed ha sistemato portiere da una parte e Coppa Italia nell’altra. Non gli avevano detto che là dentro, con la sua “complicità”, sarebbe stato adagiato pure un bel pizzico di veleno. Nelle favole c’è spesso un bosco in cui ci si perde. Fonte: CdS