Se un ragazzo di poco meno di 22 anni, cresciuto povero nella periferia di Lagos, in Nigeria, è costretto a riflettere non una ma dieci volte prima di dire sì all’Italia per paura del razzismo, della discriminazione, degli ululati negli stadi, forse è veramente il momento per il nostro calcio di dire basta. «Ero scettico, avevo paura di venire qui, ne ho sentite tante. Poi sono stato a Napoli, ho visto con i miei occhi, e ho capito che lì è tutto diverso, è una città differente e non c’è il razzismo. Ho parlato con i tifosi, con De Laurentiis e Gattuso, che per me ora sono come due padri, e posso dire che il razzismo non potrà essere un freno per la mia carriera. Né ora né mai».
Fa tenerezza Victor Osimhen quando non nasconde il suo volto impaurito dinnanzi al calcio incattivito, irrispettoso, maleducato e isterico che spesso si respira nei nostri stadi. Siamo messi male, malissimo, se un giovane campione emergente è costretto a fare come San Tommaso, a dover toccare con mano, per rendersi conto che non è proprio così, che il razzismo riguarda una minoranza che dileggia i deboli, i poveri, i migranti, le persone di colore. E spesso anche quelle del Sud Italia. Uno dei vecchi fantasmi del calcio italiano si riaffaccia nel pieno del caos del Covid. E questo ragazzo – talento puro, quasi 80 milioni di euro per il suo cartellino spesi dal Napoli – mette ancora una volta tutti spalle al muro, davanti alle colpe di non avere ancora un piano contro il razzismo. Fonte: Il Mattino