Ancelotti: “Al Napoli auguro tutto il bene possibile. La verità ha molte facce»
La lunga intervista di Zazzaroni all’ex azzurro Ancelotti su CdS:
«Mi sa che ci hanno scoperto».
Scoperto chi? E in che senso, Carlo?
«Il campionato si è chiuso con tante risse».
E allora?
«La pandemia, i suoi effetti sul calcio, gli stadi vuoti e il volume dei microfoni tenuto bello alto hanno rivelato la vera natura di noi allenatori».
E quale sarebbe?
Si fa una bella risata: «Siamo delle teste di cazzo».
Ancelotti è in vacanza fino al 13, lo raggiungo al telefono, il frinire che-fa-tanto-estate delle cicale ci accompagnerà per l’intera chiacchierata: sue, le cicale, visto che non frequentano le redazioni. Non ancora. O forse sì. Della Champions Carlo è lo specialista indiscusso: ne ha vinte cinque e una sola volta ha lasciato la finale agli altri. «Oltretutto quella giocata meglio, la più bella» dice. «Le altre, tutte più equilibrate. A Istanbul eravamo stati superiori al Liverpool, avremmo potuto chiudere il primo tempo 4 o 5 a 0, e non con tre gol di scarto come è avvenuto. Poi è andata come è andata. Quando siamo arrivati ai rigori sapevo già che avremmo perso. E pensare che avevo la miglior batteria di rigoristi possibile, Pirlo, Sheva, Kakà, Tomasson, Serginho, a differenza di due anni prima quando fui costretto a presentare tre difensori su cinque. Kaladze e Nesta oltre a Serginho».
Cosa serve realmente per vincere la Champions?
«Incoscienza, fortuna e coraggio. Nel 2003 passammo i quarti battendo l’Ajax all’ultimo secondo e ci furono i due pari con l’Inter, 0-0 e 1-1. Come disse Joseph Conrad, “It is the mark of an inexperienced man not to believe in luck”, è il marchio dell’inesperto non credere nella fortuna».
E come aggiunse Guardiola, «in Europa chi si difende è perduto».
«Questa te la sei inventata: non l’ha mai detto. Ti difendi se sei meno bravo dell’avversario ed è una condizione che Pep non ha vissuto. Nel calcio non esiste un solo modo, una sola interpretazione vincente. Certo, incidono i valori tecnici e l’imponderabile, il pallone sfugge al calcolo».
Quando riusciste a metabolizzare Istanbul?
«Due anni dopo, battendo il Liverpool ad Atene. Ricordo che seguendo in tv la semifinale con il Chelsea tifammo tutti per il Liverpool, ci sembrava un segno del destino. Lo stesso avversario, lo stesso allenatore, un’altra finale, la possibilità di rimarginare la ferita».
Toglimi una curiosità: com’era Galliani prima di una finale di Champions?
«Agitato, un vulcano di emozioni. Aveva il fuoco dentro. Ma riusciva a controllarsi, sempre. Non trasmetteva quello che effettivamente provava».
La partita di Champions che non dimentichi?
«La semifinale con lo United del 2007, 3-0, Kakà fu straordinario. Qualcuno la definì “la partita perfetta”».
Sei anni fa firmasti anche la “decima” del Real.
«Altra finale complicata, pari di Ramos a un minuto e quaranta dalla fine. Ci eravamo arrivati con tre giocatori in condizioni imperfette, Ronaldo, Benzema e Pepe non stavano bene. Subito dopo la rifinitura i primi due erano a posto o quasi. Pepe, che avvertiva un dolore al polpaccio, fu di un’onestà commovente: «Il problema non è risolto, sento ancora dolore e se mi fa cominciare – mi spiegò – corre il rischio di dovermi cambiare dopo dieci minuti, metta in campo Varane». Simeone aveva Diego Costa nelle stesse condizioni, lo fece partire dall’inizio e dopo nove minuti dovette sostituirlo. Pepe era importantissimo per noi, un grande professionista, non so quanti altri giocatori avrebbero rinunciato a una finale di Champions per il bene della squadra, una cosa fuori dal mondo. Lui lo fece».
Per la Juve la Champions è diventata un’ossessione: può realmente condizionarla?
«Un’ossessione, ma anche una fortissima motivazione. Le due cose viaggiano insieme. La Champions viene vissuta dal club come un notevolissimo investimento non solo emotivo. Io penso che quando si raggiunge una finale si sia già fatto il massimo, il resto è nelle mani di Dio».
Se passerà il turno col Lione si ritroverà, come gli altri sette, alle prese con una formula anomala. E potrebbe essere un vantaggio, visto che la Juve le finali le perde spesso nei quindici giorni che precedono l’evento.
«Sì, l’imprevedibilità della “final eight” può rivelarsi un vantaggio. Decisione in partita unica, tante finali, non una soltanto».
Chi può favorire oltre alla Juve?
«I club più motivati, quelli che chiedono alla coppa la sublimazione di una stagione o di un percorso. Il Psg che non ha mai raggiunto nemmeno una semifinale, il City. Anche se i francesi non sono troppo contenti di aver pescato l’Atalanta».
Pressioni, tensioni, aspettative: quali i giocatori che riuscivano a vivere la vigilia e l’evento con più naturalezza?
«Maldini, Sheva, Ronaldo. Cristiano sente l’importanza del momento e si fa trovare sempre al top».
Carlo, da anni siamo portati a dividere i tecnici in gestori e allenatori.
«Non capisco».
Semplice: ci sono tecnici da club top capaci di rapportarsi al meglio con i campioni e altri da club e giocatori medi. Alcuni esponenti della prima categoria: Capello, Lippi, Mourinho, Trapattoni. Di Sarri, ad esempio, si dice che sia un eccellente allenatore ma non da grande squadra.
«Ti riferisci anche a me quando parli dei primi?».
Anche.
«Un allenatore si occupa tanto della gestione del gruppo quanto della parte tattica, della strategia, e ha i suoi principi di gioco. Sono semmai i calciatori a fornire risposte differenti. È una questione di qualità tecnica, di personalità e di assunzione di responsabilità. Ci sono i soldati e ci sono i generali. Quelli che se raccomandi loro di andare a letto alle 10, alle dieci meno un minuto sono già sotto le coperte. Gli altri tornano alle due di notte ma il giorno dopo sono freschi come rose. I soldati sono quelli con i quali vai alla guerra, dici loro di montare la baionetta sulla canna del fucile e di andare dall’altra parte. Di solito ti rispondono che il nemico ha le pallottole. Gli altri ti dicono “non ti preoccupare, andiamo, va bene così, ci penso io” e non si curano delle armi del nemico. Sono i generali e ti fanno vincere».
Generali: Zidane, Ronaldo, Ramos, Iniesta, Messi.
«E Maldini, Totti, Cannavaro, Van Basten, Gullit, ne ho conosciuti parecchi».
Tre mesi fa dicesti che Zidane ti convinse a cambiare l’idea di calcio.
«È così. Mi diede lo spunto per cambiare il sistema, più che l’idea. A Parma avevo Zola, ma giocavo con un 4-4-2. Provai a metterlo sulla destra, ma partire da quella posizione non gli piaceva e quando ebbe la chiamata del Chelsea lo lasciai andare. A uno come Zidane non potevo chiedere un sacrificio tattico, esprimeva un calcio talmente perfetto, tecnico e fisico, che decisi di liberarlo totalmente. Vedi, gli schemi sono codici, ma i codici li interpretano i giocatori con le loro qualità, più sono forti e più le semplificazioni, i numerini che vi piacciono tanto, perdono di significato».
Come rispose Pesaola a chi gli rimproverò di aver messo male in campo i suoi, «io li ho messi bene, ma poi loro si sono mossi».
«Il genio del Petisso».
Carlo, il caso Ilicic ha riaperto la discussione sul calciatore e l’assorbimento delle tensioni, la depressione, la fragilità dell’atleta.
«In Inghilterra si stanno occupando seriamente del problema anche attraverso “Mental Health”, un programma del quale si è fatto carico anche il principe William. I calciatori non sono speciali, sono semplicemente degli uomini sottoposti a stress notevolissimi. Nessun calciatore ti dirà mai che non vuole giocare perché non regge la pressione, ma qualcuno va effettivamente in difficoltà».
Da quando hai lasciato Napoli hai incassato critiche e battutine senza reagire.
«Sono un grande incassatore. Al Napoli auguro tutto il bene possibile. La verità ha molte facce e non interessa a nessuno, non oggi».
Chiude con una raccomandazione: «La battuta delle teste di cazzo non metterla».
Scherzi? È centratissima.«E allora sfumala».
Ivan Zazzaroni (Cds)