Quel giorno ci svegliammo prestissimo. Anche perché dormire era stato impossibile. Io mi ero rivoltato nel mio piccolo letto, la mente al pomeriggio seguente, l’ansia feroce che mi attanagliava lo stomaco. Quella domenica il Napoli sarebbe stato di scena a Varese. Sul campo di una retrocessa. A cercare la sua prima vittoria della stagione in trasferta. Dove non aveva mai vinto. Nel giorno più importante. L’ ultima di campionato. La Juve era due punti più su. E giocava contro un’altra retrocessa. Il Lanerossi Vicenza. Un miracolo. Solo un miracolo. Per accedere ad un impossibile spareggio. Sapevamo in cuor nostro che sarebbe stato impossibile. Ma i sogni sono belli proprio perché sono tali. E nel calcio, sognare, è tutto. Così ci alzammo presto, io e papà, in quel giorno di maggio. Con i cuori intiepiditi dalla speranza. “Vinciamo facile, loro perdono all’ ultimo istante e ce ne andiamo a Roma a vedere lo spareggio”. Mio padre mi infondeva un coraggio che non aveva. Eppure, anche lui, credeva che potesse accadere. Perché era stata una stagione sfolgorante, quella. Con il Napoli di Vinicio capace di arrivare ad un’incollatura dagli odiati avversari di sempre fino all’ ultimo respiro. Due punti appena dietro. Colpa delle due sconfitte patite a domicilio in dicembre, ed a Torino nemmeno un mese prima. Due sconfitte che avevano fatto la differenza. Assieme al fatto che il Napoli non era mai stato capace di tornare dai suoi viaggi esterni con il bottino pieno. Solo un nugolo di pareggi. Che avevano scavato quel piccolo solco. La giornata trascorse veloce. Troppo veloce. Il sole di quella primavera scaldava forte, e ci ritrovammo fuori il terrazzo a ricordare ogni partita giocata quell’anno. Papà sul dondolo, io a terra, ai suoi piedi. Come fosse ieri. Il rumore delle auto in strada, lontano. Il cielo senza nemmeno una nuvola. Il canto della batteria di canarini del nostro vicino di balconata. Un cinguettio profetico. Si aspettava il collegamento radiofonico. Prima di quel fatidico istante, nel quale un altro celeberrimo uccello faceva udire il suo gorgoglio attraverso la scatola della radio, con la voce di Roberto Bortoluzzi che si materializzava, snocciolando in rapida successione i campi collegati, nessuna notizia filtrava attraverso l’ etere. L’ universo calcistico era rinchiuso nella sua costellazione misteriosa, con la porta di Gattaga che si apriva soltanto per quei quarantacinque minuti necessari a penetrare quel mondo ricco di fascino. Per poi rinchiudersi. Fino alla volta successiva. Man mano che ci si avvicinava alle quindici, l’ ora zero di quegli anni meravigliosi, l’ ora di “Tutto il calcio minuto per minuto”, la tensione divenne insopportabile. Ricordo le mie unghie che chiedevano misericordia, mentre riducevo le dita a due ammassi sanguinolenti, con la mano di mio padre poggiata sulla nuca, lo sguardo perso nel vuoto. Non un rumore. Quel pomeriggio di maggio si udiva solo il gracchiare delle radioline, all’ unisono, da qualunque parte di qualunque finestra, balcone o terrazzo. Unite assieme dal tenue filo della speranza. Magari succede. Magari accade. Magari. Magari. “Gentili ascoltatori buongiorno, dallo studio centrale Roberto Bortoluzzi. Questi i campi collegati Torino per Juventus Vicenza, Varese per Varese Napoli, Roma, per Roma….ai microfoni Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Alfredo Provenzali…primi tempi, vai Enrico”. “Juventus 4 Vicenza 0, a te Sandro”. Seppi poi, molto poi, quando le lacrime smisero di scendere, e papà e le sue parole ebbero la meglio sulla mia disperazione, che il Napoli aveva vinto due a zero. Doppietta del povero Peppe Massa. Due a zero. A Varese. Quando non serviva più. Infiorava il crepuscolo, quando mi sollevai da terra. Come fosse ieri.
a cura di Stefano Iaconis