Marcello Lippi a Radio Deejay, ieri all’ora di pranzo: Zazzaroni e Fabio Caressa ad ascoltarlo riducendo all’essenziale le domande.
Si capiscono anche tante cose del figliolo.
«Ma no… era forte, era troppo forte il papà di Bobo. Simpaticissimo, ed era un genio. Bernardini era innamorato di lui».
Hai avuto un grande maestro, lo ricordi spesso.
«Il più grande di tutti, il più grande di tutti». Fateci caso, Lippi per abitudine reitera le frasi, quasi a volerne rafforzare il contenuto. «Fulvio Bernardini è la figura non solo professionale che mi sono sempre posto come punto di riferimento. Intanto a quell’epoca era l’unico laureato. In Economia e Commercio, un uomo intelligente, colto. E aveva una qualità eccezionale per chi guida una squadra, un gruppo di lavoro in generale: imponeva la sua personalità senza annullare quella degli altri».
Noi bolognesi saremo eternamente grati e legati a “Fuffo” Bernardini, il padre dell’ultimo scudetto.
«Eh, lo so, lo so. Era fantastico. Abitavo vicino a lui, pensa, a Bogliasco. Quando divenne citì della Nazionale andarono a giocare in Olanda, persero 3 a 1, lui mise Orlandini a marcare Cruijff, no? Il giorno dopo, rientrando a casa, mi scorse su uno scoglio, stavo pescando, si avvicinò, si sedette di fianco a me e mi raccontò tutta la partita. Pensa che persona era…».
Quella Nazionale veniva dal pessimo Mondiale del ’74, lui rivoluzionò completamente la squadra e il lavoro.
«Esatto, arrivò insieme a Bearzot, fece un sacco di convocazioni, chiamò anche giocatori sconosciuti, Bernardini era di una pasta unica, un’intelligenza superiore. Bearzot era l’allenatore dell’Under 23, nel ’70, ’71 e ‘72 c’era l’Under 23 della quale facevo parte anch’io. Quattro anni dopo Bearzot fece il Mondiale da solo».
Valcareggi, Bearzot e in seguito Vicini.
«I federali».
Pensa, siamo partiti da Bob Vieri, Bernardini e Bearzot.
«Abbiamo pescato un po’ nel passato, perché se parliamo del presente c’è da mettersi le mani nei capelli».
Il nostro presente è fatto ancora di repliche e restrizioni.
«Il presente è veramente vomitevole. Vomitevole il presente».
E qui Lippi si è acceso e ho riconosciuto il Lippi più vero, quello che incontrai la prima volta trent’anni fa a Cesena.
«Mi fa incazzare, te lo dico sinceramente. Sento solo discorsi di questo tipo: bisogna fare squadra, bisogna essere uniti, compatti, coesi. Essere squadra? Ognuno pensa ai cavoli suoi, ognuno pensa a casa sua, pensa alle poltrone, a livello politico, a livello scientifico, a tutti i livelli».
Prendiamo il calcio: non a caso oggi (ieri) è partito chi ha saputo fare davvero sistema, la Bundesliga anti-Covid. Dal primo momento i tedeschi hanno detto: si parte tutti insieme, e basta.
«Qui in Italia si strumentalizza tutto a proprio uso e consumo. Se c’è qualcuno che fa o dice qualcosa di buono viene immediatamente sputtanato, gli mettono i bastoni tra le ruote. A livello scientifico è ancora più vergognoso: ma, dico io, siamo nel 2020, andiamo su Marte e non siamo capaci di trovare una medicina, un rimedio per questo cavolo di virus, un vaccino, dài! Se uno scopre una cosa importante che potrebbe risolvere i problemi di un’altra nazione la tiene per sé, non la comunica perché non vuol far fare bella figura all’altro, questa è la situazione».
Un po’ semplicistico, forse, ma chiaro e efficace.
«È così, è veramente vergognoso. Ci si chiede se ripartire o no, perché non si dovrebbe ripartire? Certo che bisogna ripartire».
Viviamo nell’incertezza più totale, dentro una confusione alimentata continuamente. Ho appena letto un rapporto dei medici tedeschi uscito dal Ministero dell’Interno, nel quale si afferma che “il coronavirus è un falso allarme globale”. Un atto di ribellione contro la narrativa ufficiale. Non so, non sappiamo più cosa prendere per buono.
«Ma poi, tra l’altro, ci dicono da un sacco di tempo che dovremo convivere a lungo con questo virus. Riparte quello, riparte quell’altro, e allora perché il calcio non deve ripartire? Non è più come due mesi fa quando purtroppo ci siamo ritrovati a dover far fronte a uno tsunami, una crisi drammatica che non eravamo preparati a gestire. Persone che finivano in ospedale quando ormai era troppo tardi. Non c’era l’organizzazione che c’è adesso. Il virus ha perso potenza, numerose terapie intensive sono vuote, oggi siamo in grado di contrastare diversamente la pandemia e allora cosa spinge qualcuno a sostenere che il calcio non deve ripartire. Nei confronti del calcio c’è una demagogia impressionante, un moralismo inaccettabile. Il calcio può piacere o meno, si può essere tifosi o non tifosi, ma una cosa non va mai dimenticata: il calcio professionistico è un’industria e come tale deve essere trattato».
Ho richiamato Lippi a metà pomeriggio, stava seguendo le partite della Bundesliga. «È calcio vero», mi ha detto.
«Non so se si possa parlare di nuova normalità, ma di calcio sì, di calcio si deve parlare».
Fonte: CdS