Gianfranco Zola: “Un scudetto vinto a Napoli ne vale almeno 10”

Educato, elegante, altruista  capace di rispondere a tutto  dando il tu soltanto al pallone  per gol di classe o un assist d’oro  

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Il tempo s’è fermato e in quello sguardo da fanciullo, un’ode alla bontà, sembra di restare sospesi e leggeri nella dolcezza d’un dribbling, nell’incanto d’una veronica, nella poesia d’un tunnel: Gianfranco Zola è l’amico (geniale) della porta accanto, una cascata di sincerità che rinfresca, la rappresentazione vivente della Bellezza mescolata alla purezza, da assorbire per star meglio con se stessi. Zola è la melodia d’un calcio narrato senza strillare, le movenze eleganti che appartengono alla sua natura, trasparente ed esemplare, la luce che guida per uscire da questo cono d’ombra dal quale bisognerà pur evadere per riappropriarsi della vita. «Il calcio può aiutare a ritrovarci, perché dispensa allegria».  

 

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 Nel magic box, il virus cos’ha lasciato? «Un senso di profonda preoccupazione per gli effetti – che si presumono devastanti – capaci di incidere sul sistema economico del Paese e più in generale del Mondo. Il rischio di un collasso. L’incertezza, perché non sappiamo cosa succederà, come diventeremo, e la paura, in questo caso sì, delle difficoltà a cui la gente sarà costretta».

Sarà difficile rialzarsi.  «Si resterà sconvolti negli equilibri, con ripercussioni che già adesso si possono percepire. Ricominciare non può essere semplice e chiunque, da chi dirige il Paese alla gente comune, dovrà dare il proprio contributo».

È un impegno a cui dovrà assolvere anche lo sport. «Per quel che può, essendo minato nel corpo e nelle finanze. E come terapia iniziale, ben venga il ritorno del calcio, che può fungere da terapia, perché fa bene all’umore. A modo suo, sistemare un partita al centro delle giornate, ha un valore non solo simbolico di rinascita: sarebbe un segnale di avvicinamento alla normalità».

Zola è andato in astinenza?  «M’è mancato ma abbiamo anche avuto altro a cui pensare. Però ora qualcosa si muove e io non so bene se vedremo la fine del campionato in corso o l’inizio di quello che dovrebbe cominciare a settembre. Personalmente, mi auguro che si riesca a chiudere la stagione, perché sarebbe ingiusto non farlo».

Servono strategie e una politica perché si possa riaprire il 13 giugno ma senza tutti queste condizioni…  «Ci vogliono piani alternativi nella eventualità di casi di contagio o persino nella ipotesi di ricadute. Ho provato a pensare cosa farei io se dovessi avere il potere decisionale, e mi è venuto mal di testa. Però quando si presenta una situazione eccezionale, come quella che stiamo vivendo, bisogna regolarsi con strumenti e risposte egualmente eccezionali ed immediate che soprattutto il calcio – una delle industrie più importanti dell’Italia – può fornire. Il football può offrire distrazione e accendere il fuoco d’una passione che in questi ultimi tre mesi di tragedie e paure si è sopita».

Permetta: il dio del calcio è stato ingiusto, avendo lasciato a Zola un solo scudetto.  «Però la sua tesi rappresenta un falso storico, perché quel titolo conquistato a Napoli ne vale almeno dieci vinti altrove. E quel trionfo ha avuto un significato straordinario, a modo suo storico, se chiaramente combinato con il primo». 

 Questo, il nostro, non sembra più un Paese, per numeri 10… Mentre ai suoi tempi e anche un po’ prima ma pure un po’ dopo... «C’è stata una generazione di talenti che nasceva e si riproduceva. Una sequenza di geni che restano lì, scolpiti nel tempo: abbiamo avuto i Mancini e i Baggio e i Del Piero e i Totti e una serie A che ne ha accolti poi dall’estero. Non ci è mancato niente».

Lei fa il modesto e però c’era anche Zola.  «Mi sono piaciuto, soprattutto perché sono riuscito a restare sempre me stesso. Ho avuto genitori che mi hanno formato con solide basi e ho una moglie che rimane una figura centrale. Non ho mai perso l’orientamento, nonostante il ruolo da privilegiato e il pericolo che idolatria e benessere rappresentavano».

Ma è finita con i «10»?  «È cambiato il calcio, che ora si fonda su criteri diversi, schemi che hanno abolito o quasi certe figure. Ma l’intelligenza resta utile, anche indispensabile. Ora gli allenatori preferiscono la costruzione dal basso e i difensori sanno giocare meglio. E’ una forma nuova che però non sopprime l’intelligenza». 

A Zola quale 10 italiano è piaciuto di più?  «Tengo fuori da questa classifica, figlia di una domanda carogna, Maradona: e tutti ne comprenderanno il perché. Ma non è neanche necessario poi sottolineare che siamo al cospetto comunque di calciatori enormi, direi straordinari, ognuno capace di esaltare. Ma se devo sceglierne uno e uno solo, allora voto Totti: influente sempre, nel segnare e nel consentire di farlo. Forse, complessivamente il più completo. Pensi che lo preferivo persino a Zola…».

Ha visto debuttare in serie A Gigi Buffon, che ancora sta là, in mezzo al campo.  «E capii subito, me ne posso vantare, che stavamo di fronte a un ragazzo destinato a diventare leggenda. Ci ho preso subito, anche se era facile. Mi è sempre piaciuto il calciatore e ancor prima l’uomo: solare, positivo, trascinante, carismatico. Quando ti allenavi, se decideva di non farti fare gol, diventava complicato e quasi impossibile riuscirci. S’è meritato quello che ha inseguito e sono felice per lui». 

Scherziamoci su, sfatando anche qualche leggenda metropolitana: quante volte ha incontrato Ancelotti, da quel 1997?  «Una serie infinita di incontri, di confronti e di chiacchierate con un grande allenatore e una persona perbene. Io con Carlo non ho mai avuto problemi, né lui con me: quella storia al Parma era destinata a finire ed è così che doveva andare. Ma non ci sono responsabilità sue, né mie. E poi quella cessione al Chelsea penso che abbia lasciato in ognuno soddisfazione. Io mi sono trovato all’inizio di un ciclo meraviglioso, in una città che poi è diventata casa mia». 
 
Nel ‘95, entrò nella top ten dei candidati al Pallone d’oro.  «Lo vinse Weah e io che avevo cominciato bene, fini calando. Ma pure quella resta una soddisfazione». 

Wembley, 12 febbraio 1997, qualificazioni ai Mondiali, Inghilterra-Italia 0-1, gol di Zola. «Dimenticare, almeno per me, non si può. Gli inglesi in casa loro erano il nostro tabù, ci avevamo vinto una sola volta, rete di Fabio Capello, ma ventiquattro anni prima. E toccò a me, quella volta, ed io ero già a Londra, nel Chelsea. A fine partita, davanti all’ingresso degli spogliatoio, mi ritrovai Fulvio Marrucco, che non è solo il mio manager ma assai di più, in lacrime. Se non mi fosse stata chiara l’importanza anche dal punti di vista emozionale di quella vittoria, me ne sarei dovuto accorgere per forza».

Per lei si è «scomodata», nel 2004, la regina Elisabetta, nominandola membro dell’Ordine dell’impero britannico. «Mi sono stabilito in Inghilterra perché ci siamo trovati bene, sempre. E sono rientrato in Italia, proprio all’inizio di questa emergenza, semplicemente perché mi sembrava che avessimo preso coscienza meglio della drammaticità del momento. Sono grato all’Inghilterra per l’affetto e per i sentimenti veri che mi ha sempre riconosciuto». 
 
Curiosità: non è ben chiaro cosa ci facesse con quella «25» poi ritirata… 
«Quando arrivai la numero 10 era sulle spalle di Mark Hughes, non so se vi è chiaro. E io provai timidamente e rispettosamente a provocarlo, chiedendogli quante fossero le possibilità di strappargliela. E lui simpaticamente ed amichevolmente mi mandò a quel paese. Mi fu proposta la 21, ma dopo l’esperienza al Mondiale americano, preferii evitarla…». 

Essere stato (solo) vice campione del Mondo l’amareggia ancora. «Mi scoccia molto, perché eravamo i più forti, direi anche nettamente. Penso e spero che non si risentano i giocatori del Brasile, dei quali ho stima gigantesca. Ma noi avevamo un gruppo dalla forza impressionante. Però arrivammo distrutti alla finale, dopo un po’ vennero i crampi a qualcuno, c’era chi era reduce da infortuni e chi aveva accusato difficoltà in precedenza e giocò da mezzo infortunato. Tutto ciò fu condizionante».
 
La Nazionale è il suo rimpianto, par di capire.  «Sono felice di quello che ho realizzato e del modo in cui sono riuscito ad ottenerlo. Sono partito dalla strada, sono fiero delle mie origini, però penso che per varie ragioni – perché il destino anche così ha voluto – non sono riuscito a dare in azzurro quanto invece sono stato in grado di offrire ad ogni club».

Aspettando che nasca un nuovo Zola, non solo calcisticamente, ma nello stile, nel modello di vita, cosa si augura adesso?  «Che finisca tutto e che si prenda insegnamento da quello che stiamo vivendo. E che il calcio ci possa riconsegnare la serenità che purtroppo abbiamo smarrito».

A cura di Antonio Giordano (CdS)

 

 

 

 

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