La rivolta degli operatori. I principali operatori del settore scommesse sono sul piede di guerra. Perché, in caso di approvazione, sarebbe il secondo aumento della tassazione in appena tre anni. Dopo che oltre 10.000 strutture (tra punti vendita monomarca e corner all’interno dei tabacchi) sono rimaste chiuse, per più di due mesi, durante la fase 1 del lockdown.
Non a caso, ieri, i 40.000 lavoratori del comparto hanno protestato facendo suonare gli “allarmi” dei punti vendita, presenti in tutta la penisola, per contestare la politica del governo. Il contributo dello 0,75%-1% sulla raccolta dalle scommesse «determinerebbe un incremento stimabile nel 30-33% circa dell’attuale tassazione. Costringendo gli operatori a scelte drastiche. Con immediate ripercussioni negative sull’occupazione». E si sommerebbe alle aliquote già in vigore per le scommesse in agenzia (20% del margine), le virtuali (22%) e l’online (24%). Questo flusso di betting genera circa 433 milioni l’anno di entrate.
Più in generale la filiera del gioco (con particolare attenzione al segmento delle scommesse sportive) si troverà «costretta a valutare la possibilità di non fare più ricorso alle concessioni italiane per la raccolta. Per ricercare altre opportunità all’estero e, di conseguenza, verrà azzerato il gettito erariale delle scommesse», con lo stato di crisi per decine di migliaia di lavoratori.
La rabbia del settore, nei confronti delle istituzioni del calcio, nasce anche da una serie di evidenze. Le leghe professionistiche, con l’approvazione del “Decreto Dignità” (dal novembre scorso le aziende di betting non possono più mostrare marchi o prodotti su maglie e cartelloni pubblicitari), hanno rinunciato ad almeno 45 milioni di ricavi. Adesso, sotto i colpi del Covid-19, cercano di recuperare parte della perdita attraverso l’imposizione fiscale del governo. Andando a toccare anche le scommesse “virtuali” (veri e propri “eventi simulati”, in alcun modo collegabili allo sport in generale). * direttore agenzia Sporteconomy.it. Fonte: CdS