Il tecnico della Juve Stabia sa cosa è il dolore per esperienza personale. E si augura di poter sconfiggere anche la pandemia. «Sarebbe bello ritornare a giocare e ottenere una salvezza meritata. Intanto mi godo le mie figliolette».
CASTELLAMMARE DI STABIA
Più di 50 giorni senza il campo. L’impazienza da controllare, il lockdown come una snervante melina. Fabio Caserta ha guardato oltre, al di là della Pompei dove vive e dei dieci chilometri che lo separano dal “Menti”. Il tragico bollettino quotidiano, opera del nemico invisibile, invita alla riflessione, riapre le cicatrici sul cuore. Non potendo provare schemi o dare indicazioni ai suoi calciatori, si è lasciato coccolare dalla moglie e dalle tre figlie, allenando l’unica cosa possibile: l’amore in famiglia. «Ho capito il lavoro e i sacrifici di Mariella: straordinaria, sempre sola con le tre bimbe. Ho visto cosa mi perdo quando lavoro tutto il giorno. Ho imparato la gioia delle piccole scoperte quotidiane delle mie figlie».
Cosa fa a casa?
«Mi sono divertito a fare la pizza e qualche dolcetto. Cerco di parlare poco di calcio con loro. Però mi aggiorno».
La Juve Stabia è virtualmente salvo. Si riparte, non si riparte. Quanti petali ha strappato?
«Questa situazione coinvolge il pianeta, non il calcio italiano. Ci siamo logorati senza arrivare a una soluzione, mentre ogni giorno morivano centinaia di persone. Quei numeri della sera erano famiglie distrutte dal dolore. Questo virus mi ha dato la possibilità di rinsaldare i rapporti con chi amo. Cerco sempre il lato positivo, perché i momenti negativi non sono mancati nella mia vita».
A otto anni stava morendo in un incidente stradale, poi la perdita del papà in una fase delicata della sua carriera di calciatore, appena passato al Palermo (2007), e la scomparsa del fratello Raffaele in un fatale scontro in auto nel 2013. Il dolore rende più forti?
«Sicuramente, ma è pur sempre sofferenza. Poi per fortuna torna puntuale la luce. Da bambino, dopo l’incidente sull’apecar con mio nonno, mi davano per morto. A mia mamma dissero che non ce l’avrei fatta. Da lì in poi un peregrinare tra medici e centri di riabilitazione. Le perdite dei cari lasciano cicatrici… ».
A 17 anni faceva karate. A 18 parrucchiere con suo fratello. E il calcio?
«E’ arrivato tardi, giusto in tempo. Iniziai dai campetti fino all’Igea Virtus, poi un bivio sul più bello: un’offerta da non credere dal Teramo e una dal Catania, decisamente bassa, ma in B. Mio padre mi consigliò la B rispetto a un ingaggio importante. Ebbe ragione. Vincemmo il campionato, guadagnai la A sul campo, il resto è la mia storia da calciatore».
Ha incrociato grandi campioni: il più forte?
«Da avversario, Kakà. Come compagno, Miccoli: fantasia al potere. Ricordo che il magazziniere lanciava le arance in aria e lui le colpiva con il pallone. Poi le posizionava sull’incrocio dei pali e le spazzava via come voleva, anche con la rabona».
Prima calciatore, poi tecnico della Juve Stabia, 4 stagioni e più in mediana, 109 presenze, 16 reti. Fu il presidente Manniello a dirle di chiudere la carriera a 38 anni lì e di tentare la strada dell’allenatore?
«All’inizio non ero convinto di smettere. Poi mi ha dato la possibilità di guidare questa squadra. E che dire del rapporto con Castellammare: siamo una cosa sola. Ho coronato il sogno di portarla in B. Ricordo le parole di Manniello in tempi non sospetti: “se vinciamo il campionato, sposi Mariella e ti farò da testimone”. Durante la festa promozione dichiarò: “Ora Fabio deve mantenere la promessa”. A giugno era al nostro fianco in chiesa».
La promozione, 20 aprile 2019. Sembra una vita fa. Come l’ultima gara, l’8 marzo. Senza il lavoro sul campo, anche da casa è un martello con i suoi ragazzi?
«No, perché la maggior parte del lavoro è curata dal mio staff. Seguo i programmi che la squadra svolge, anche in condizioni improbabili, in monolocali. Sono grandi professionisti».
Tra gli allenatori avuti, quali sono i suoi riferimenti?
«Conte per il carattere. Braglia perché sa quali corde toccare per farti dare il meglio. Su tutti, però, c’è Marino. Insegna il calcio con poche parole».
Ha avuto modo di sentirlo?
«Certo. Mi fa: “Mister, cosa mi dici?”. E io a ridere: lui che chiama me “mister”… ».
Pensa che ci siano margini per una ripresa?
«Sarebbe stato bello ottenere la salvezza sul campo. Se pensiamo al protocollo, sono misure difficili da attuare in A, figuriamoci in B e C. Restiamo in attesa che si decida se chiuderla qui o riprendere, chissà quando poi».
Come vede il futuro del calcio?
«Mi preoccupa. Saranno premiate le società, sempre meno, che potranno garantire investimenti importanti. Le piccole soffriranno di più, con rischi incalcolabili».
Domani che giorno sarà?
«Uguale agli altri, almeno credo, purché sia in salute. L’augurio è un ritorno alla normalità. La davamo per scontata, ora la sogniamo». Fonte: CdS