Victor Hugo Morales: «Napoli e Maradona? Al giorno d’oggi abbiamo bisogno di avere degli eroi”
«Barrilete cosmico, de qué planeta viniste?». Anche dopo quasi trentaquattr’anni la voce di Victor Hugo Morales emoziona attraverso l’intervista a il Mattino. Giornalista uruguaiano, classe 47, debutto al microfono a 17 anni e dall’81 al lavoro in Argentina, raccontò il gol del secolo di Diego Armando Maradona a Città del Messico, sfida contro l’Inghilterra del 22 giugno 86. Aquilone cosmico, da quale pianeta sei arrivato? Quella radiocronaca è rimasta nella storia, come quella prodezza: quattro inglesi più il portiere saltati dal capitano del Napoli. Victor Hugo, uomo di grande cultura, divenne el relator più celebre al mondo. Quelle parole di retorico fascino vorremmo riascoltare negli angosciosi silenzi di questi giorni.
Il vuoto nelle strade di tutto il mondo la spaventa? «Mi commuovo, ecco. Stanno emergendo valori come la solidarietà e la fratellanza che il neoliberismo ha rubato al mondo. Spero che alla fine saremo davvero migliori, più umani, riscoprendo l’importanza dell’altro e apprezzando la vita da un punto di vista più elevato, superando la trappola della meritocrazia. Più che spaventarmi, adesso, tutto questo mi fa sperare».
La sua telecronaca dall’Azteca è nella leggenda del calcio. Oggi gli stadi sono vuoti e tali resteranno anche quando le partite ricominceranno. Cosa ci vorrebbe? «Bisogna tornare alla vita. E un momento come quello del gol di Maradona sarebbe la fiamma per riaccenderla».
Lei ha rubriche quotidiane alla radio e in tv in Argentina: anche la parola può essere un’arma per combattere il Coronavirus? «Possiamo aiutare in questa fase di doveroso isolamento. Io mi difendo, diciamo così, con i libri, le informazioni continue, la scrittura. Penso che il calcio tornerà presto, anche se senza pubblico. Ogni fine settimana si avverte il vuoto della sua assenza e ciò rende ancora più drammatica questa situazione: è più difficile senza le emozioni che il calcio sa trasmettere. Io sono cresciuto con i giornali, appartengo alla generazione della carta. Li considero sempre i più credibili perché, a differenza della rete, c’è sempre chi mette la firma ed è responsabile di ciò che afferma. Il giornale proietta l’idea della verità. Un giornalismo scritto chiaro e fedele è ancora l’elemento più prezioso nella comunicazione».
Se chiude gli occhi e ripensa al 22 giugno dell’86? «Vedo Maradona che corre sul prato al rallentatore, avvolto in un alone giallo di sole. Il momento più bello della mia vita di commentatore, l’attimo perfetto».
Perché chiamò Diego aquilone cosmico? Si rese conto, con quelle parole, che stava entrando nella storia? «Prima del Mondiale c’erano state alcune critiche nei confronti di Maradona: lo avevano definito aquilone perché cambiava idea e, proprio come un aquilone, non si riusciva a capire dove andasse. Aggiunsi l’aggettivo cosmico perché un Mondiale ispira quei pensieri: il cosmo, la galassia, lo spazio, le stelle, l’infinito e, se possibile, tanto altro ancora. Dice che entrai nella storia? È stata un’enorme fortuna trovarmi là».
In quella partita vi fu tutto il calcio, tutto Maradona: il colpo d’astuzia, la Mano de Dios, e il colpo di genio, il dribbling a cinque inglesi. «Ho letto un articolo di un ex portiere che vive in Europa, Tamburrini. Sostiene che certe trappole fanno parte del gioco. Quando commentai l’altro gol, fui chiarissimo: gli inglesi hanno ragione, c’è stato il tocco di mano. E sono ancora orgoglioso di averlo detto e di aver criticato l’arbitro. Ricordo di aver pronunciato queste parole: lo grido dall’anima, il gol è con la mano. Dagli studi di Buenos Aires un collega mi disse: Victor Hugo, il gol è stato segnato di testa. Ero avvilito, volevo morire, finché non fu confermato che avevo ragione».
Qual è stato il più bel commento di una partita? «Mi ispirò molto la vittoria dell’Italia al Mondiale dell’82. Conosco bene la storia di questo grande Paese e allora, quella sera, immaginai i luoghi d’Italia in cui si sarebbe celebrata una vittoria così inaspettata. Anche il Mondiale dell’86 fu esaltante: i gol di Maradona offrivano sempre grandi spunti».
Qual è il collega italiano a cui è più affezionato? «Ci sono giornalisti formidabili. Conosco e ammiro Federico Buffa».
Con Maradona ha poi diviso un’esperienza televisiva durante i Mondiali di due anni fa in Russia. «Genio irripetibile. Unico per leadership, coraggio, generosità. Incomparabile come calciatore e la sua storia ancora continua. Non conosco una difficoltà maggiore di essere Maradona. Dio non dà uomini come Mozart, Bellini, Maradona senza che non vi siano tormenti».
Prima del barrilete cosmico, vi fu a Firenze una rete di Diego che diventò michelangiolesca nella sua radiocronaca. «Era una partita contro la Fiorentina, un omaggio a Bertoni. Maradona fece un gol meraviglioso e io commentai: se Michelangelo fosse ancora qui, Diego, ti dedicherebbe un’opera d’arte. Eravamo a Firenze e Maradona, il David del calcio, mi aveva ispirato».
Come si spiega, a ventinove anni dall’addio all’Italia, un amore ancora intatto a Napoli per Maradona? «Le persone normali hanno bisogno di eroi. Siamo ciò che ammiriamo. Quello che Napoli ama di Maradona non è solo la sua grandezza di calciatore. Diego ha rappresentato la ribellione che partiva dal basso, l’uomo che ha sfidato il potente per vendicare i più umili. Maradona è Sud, vendetta, rivincita, passione. Diego e Napoli continuano ad essere l’uno per l’altra».
A quasi trent’anni dalla semifinale mondiale Italia-Argentina al San Paolo, ricorda che vi fu il tifo dei napoletani per il loro capitano e la Seleccion? È stata una delle grandi polemiche tirate fuori da ex calciatori dell’Italia.
«Questo è quanto hanno detto. Io avevo le cuffie, sentivo solo il rumore della folla, però mi sembrò che quando Diego stava per calciare il rigore vi fu un tentativo per intimidirlo».
Quali sono i campioni che ha amato di più? «L’amore è Diego. Ora c’è Messi. Passerà il tempo e lo vedremo come un mito, ma adesso è difficile».
La Redazione