Da ex cestista a cardiologo, Juan Antonio Corbalan: “Gli atleti si ribellino e non tornino in campo”
È stato un fuoriclasse del basket europeo negli anni Ottanta, playmaker del Real Madrid campione del mondo e della Spagna vice campione olimpica. Juan Antonio Corbalan è adesso uno dei più noti specialisti in cardiologia e medicina dello sport nel suo Paese. «Trentadue anni fa, quando ho concluso la carriera di cestista, sono stato anche in Italia, presso il Policlinico Gemelli di Roma, per un lavoro di due mesi presso il dipartimento del professore Paolo Zeppilli (è l’attuale presidente della commissione medica della Figc per la gestione pandemia, ndr). Da lui e dallo suo staff ho imparato molto, soprattutto che la medicina deve essere multidisciplinare», spiega l’ex stella del parquet dall’ospedale Vithas Internacional di Madrid, dove segue con ansia il dramma della pandemia – in Spagna vi sono stati oltre 208mila contagiati e 21mila morti – ma anche il tentativo dello sport di ripartire.
Dottor Corbalan, ritiene che l’emergenza Coronavirus sia stata affrontata in maniera corretta prima dai medici e poi dai politici? «Con i risultati che abbiamo davanti è chiaro che ci sono state delle falle. In tempi di crisi le decisioni adottate spesso non sono le migliori e penso che proprio questo sia accaduto. L’OMS ha sbagliato a valutare il problema e ha agito in ritardo. I casi dell’Italia e della Spagna, in particolare, sono stati esempi di mancanza di lungimiranza e conoscenza approfondita del problema. In ogni caso, il modo in cui il virus si è diffuso significa che alcuni mesi prima del preavviso globale molti infetti avevano già lasciato la Cina. Quei giorni persi avrebbero potuto essere vitali. Il trattamento medico è migliorato man mano che la patofisiologia della condizione è diventata nota. Una malattia sconosciuta richiede purtroppo molti tentativi ed errori, come si dice in gergo, fino a quando non raggiunge la massima efficacia in attesa del vaccino, che sarà la soluzione definitiva. Ci sono stati eventi sportivi, manifestazioni politiche e mezzi di trasporto collettivi ancora per un lungo periodo e ciò ha facilitato il contagio. Il lockdown è l’unico modo per affrontare la prima fase dell’epidemia, ma ora arriva la sfida per tutti i Paesi: come riaprire le città alla vita. Credo che, anche se si tratta di questioni locali, ciò merita un approccio europeo di azione coordinata tra distretti, città, regioni e Paesi per prevenire una cattiva strategia e una ripresa dell’epidemia».
Un grande uomo di sport cosa prova quando vede stadi e palazzetti di tutto il mondo utilizzati da settimane come ospedali da campo? «A me fa male vedere le città e i Paesi fermi, senza vita e con l’incertezza di ciò che il futuro ci riserva. Ci saranno molte sofferenze e situazioni difficili, alle quali nessuno di noi sfuggirà direttamente o indirettamente. Il mondo dello sport ha ricevuto molto dalla società e ora sembra che le sue case possano aiutare la gente. Preferisco vedere un grande Colosseo dove si salvano le vite anziché stadi e palazzetti vuoti. Speriamo che presto siano pieni di bambini».
Gli atleti contagiati dal Coronavirus a quali controlli dovrebbero sottoporsi prima di tornare ad allenarsi? «Sotto questo aspetto gli atleti non rappresentano un mondo a parte e devono seguire le stesse linee guida del resto della popolazione. I casi più gravi non hanno riguardato atleti professionisti, da quanto ci risulta, però molti atleti dilettanti più anziani potrebbero aver sofferto per la malattia, con gravità maggiore o minore. Questi casi possono essere i più problematici, con possibili gravi conseguenze, come la compromissione della funzionalità polmonare. Ma potrebbero esserci anche problemi di natura renale, vascolare, cardiaca e metabolica. Il ritorno all’attività dovrebbe essere fatto con cautela e con una valutazione della funzionalità polmonare e cardiaca. Dovrebbe essere considerato come un periodo iniziale della stagione, una sorta di pretemporada, facendo aumentare i carichi di lavoro con moderazione. Dobbiamo pensare che veniamo da due mesi di inattività e in alcuni casi con una prolungata convalescenza ospedaliera».
Lo sport prova a ripartire e in particolare c’è grande fermento da parte delle più grandi leghe calcistiche europee. La sua opinione da medico ed ex atleta? «La parola ribellione suona un po’ dura in questo momento, ma sì, io penso che l’associazione dei giocatori dovrebbe rifiutarsi di giocare. Almeno in Spagna ci sono molte persone non diagnosticate e, se non facciamo attenzione, possiamo tornare al punto di partenza. Sarebbe pericolosissimo. Lo sport può essere una fonte di contagio di primo livello se si infrange quella barriera fondamentale che è la distanza di sicurezza. Una gara è rischiosa perché si corre dietro agli altri. Bisogna fare sport da soli. In quelli di squadra, infatti, gli spostamenti d’aria causati dal movimento dei giocatori possono mantenere il virus sospeso nell’aria che respiriamo. E ciò soprattutto in uno sport come il basket, che si gioca al coperto e con una iperventilazione per molti giocatori in poco spazio. Mi sembra una presa di posizione coerente con l’attuale situazione».
Ma il calcio insiste, dato che ci sono in ballo miliardi di euro per i diritti televisivi. «Diciamolo con chiarezza: io non giocherei più, lo sport va considerato finito in questa stagione e ciò vale anche per le partite a porte chiuse. L’aspetto economico è di vitale importanza, ma non è superiore ai problemi delle persone normali che perderanno il loro lavoro e forse la loro casa non pagando il mutuo. Se non affronteremo la situazione sanitaria in modo assoluto, ci troveremo sempre con la spada di Damocle sopra di noi. Dopo essere partiti in ritardo, cerchiamo di non sbagliare di nuovo. E comunque, come diciamo in Spagna, doctores tiene la iglesia: basiamoci sui pareri di chi ha conoscenze approfondite».
Dovremo abituarci a guardare eventi sportivi senza spettatori per molto tempo? «Sì, credo che questo sarà uno dei provvedimenti, o perlomeno sarà necessario che ci sia un metro e mezzo di distanza tra gli spettatori e che essi non si muovano molto. Uno spettatore ogni tre posti può essere una buona soluzione. Ma dovremo abituarci a un nuovo modo di consumare lo sport dal vivo. Penso che ciò che accadrà in autunno possa darci una visione adeguata della realtà del futuro».
Le Olimpiadi di Tokyo sono state spostate di un anno: pensa che nel 2021 ci saranno tutte le condizioni per disputarle? «Fino all’estate del prossimo anno sarà passato abbastanza tempo per affrontare i Giochi in modo sicuro, concedendo agli atleti almeno sei mesi per completare i loro cicli di preparazione con allenamenti e gare. Tutto sarà possibile un po’ prima o un po’ dopo, ma soltanto se saranno fatte le cose bene. E non sarà facile. L’augurio è che nei primi mesi del 2021 ci siano uno o due vaccini sul mercato. E speriamo bene per tutto il mondo».
Fonte: Il Mattino