Il Mattino – Covid-19, il contagio soffre il caldo: gli scienziati fanno il tifo per l’estate
Un mese fa, con la pubblicazione dei primi studi cinesi su una possibile correlazione tra diffusione del Covid-19 e clima, alcuni scienziati europei storsero il naso. Neanche il tempo di veder esplodere la pandemia, oltre che in Italia, anche in Spagna, Francia, Germania e via via verso il Regno Unito, ed ecco che la teoria ha iniziato a diffondersi con la stessa celerità. Le pubblicazioni scientifiche più accreditate, cioè quelle che sono passate al vaglio delle commissioni internazionali che controllano dati e valutano se l’ipotesi sia credibile o no, sono aumentate e la più accreditata è quella composta da un team statunitense e iraniano a fornire le valutazioni più affidabili. «Temperature, Humidity and Latitude Analysis to Predict Potential Spread and Seasonality for Covid-19» vede capofila l’University of Maryland insieme al Shahid Beheshti University of Medical Sciences di Teheran che dopo la loro prima stesura ha avuto un ulteriore aggiornamento pochi giorni fa, con dati che confermano l’ipotesi che ci sarebbe un gradiente specifico di temperatura e umidità che favoriscono la diffusione del Covid-19. Ma il dato ancora più importante è che con una determinata temperatura e umidità, la diffusione rallenta, impedendo quindi una diffusione catastrofica come quella avvenuta nel Nord Italia. Alla ricerca nelle ultime settimane si è aggiunto un gruppo di specialisti del Massachusetts Institute of Technology, la celebre università di tecnologia che ha come obiettivo quello di verificare se l’ipotesi su vasta scala è valida e se può essere applicata anche negli Stati Uniti, che ha aree climatiche molto diverse all’interno dei territori continentali. I primi studi su una possibile connessione tra temperatura, umidità dell’aria e latitudine, con la potenziale diffusione e stagionalità di Sars-CoV-2, il virus che causa Covid-19, sono stati realizzati da ricercatori cinesi. Poi via via ne sono seguiti molti altri, tra cui il più completo e accreditato è dell’University of Maryland insieme all’University of Teheran, in Iran, cui si è aggiunto un team dal Massachusetts Institute of Technology. Quello che sta emergendo è che temperature e tassi di umidità relativa elevati possono ridurre anche in modo significativo la trasmissione, ma non fermarla del tutto. L’articolo «Temperature, Humidity and Latitude Analysis to Predict Potential Spread and Seasonality for Covid-19», pubblicato su Social Science Research Network, evidenzia che la diffusione del coronavirus sta avvenendo lungo una specifica fascia climatica che si estende da Est verso Ovest e che è compresa tra i 30 e i 50 gradi di latitudine Nord, luoghi dove nei primi tre mesi dell’anno sono state registrate condizioni meteo piuttosto omogenee.
In particolare si evidenzia che il 90 per cento dei contagi (i dati sono aggiornati a marzo) è avvenuto con una temperatura compresa tra 3°C e 17°C e in un range di umidità compresa tra i 4 e i 10 grammi per metro cubo. Le aree geografiche che tra gennaio e marzo hanno evidenziato temperature medie superiori ai 18°C hanno infatti riscontrato un numero decisamente inferiore di contagi (Hong Kong, Thailandia, Indonesia, Malesia, Singapore). I ricercatori del Mit hanno quindi verificato il territorio Usa e hanno visto che la trasmissione dell’infezione è stata decisamente più veloce nelle zone dove vige ancora un clima invernale tra cui New York, Washington e New Jersey, e molto più lento in California, Florida e Arizona. Ora, si cerca di capire, se temperatura e umidità alterano anche la struttura molecolare del virus. «Sulla base di ciò che abbiamo documentato finora, sembra che il virus abbia difficoltà a diffondersi tra le persone in climi tropicali più caldi», ha dichiarato il leader dello studio Mohammad Sajadi dell’Istituto di Virologia dell’University of Maryland. Il prossimo passo del team è utilizzare i dati raccolti per «perfezionare la nostra teoria e capire quali sono le condizioni atmosferiche meteorologicamente favorevoli per il virus», ha detto Augustin Vintzileos dell’Università del Maryland.
I nuovi risultati, pubblicati sabato, sembrano confermare tutto, sebbene gli scienziati del Mit (non virologi, ma ingegneri ambientali) ammettono che i dati a disposizione sono ancora «scarsi e non ugualmente raccolti in tutti i Paesi», e invitano le autorità a continuare la quarantena. «Uno dei maggiori pericoli è ritenere che il virus sia meno pericoloso a temperature più calde. Oltre alle condizioni meteorologiche, ci sono molti altri fattori che possono svolgere un ruolo nel numero di casi colpiti in qualsiasi regione, tra cui densità di popolazione, politiche di sanità pubblica, strutture politiche e sociali, qualità dell’assistenza sanitaria, intervento sanitario e tanto altro». Fonte: Il Mattino.it