Prof. Tarro (miglior virologo al mondo): “Covid? Il caldo aiuterà. In spiaggia andremo senza mascherine!”
Se non avesse fatto il medico, avrebbe scelto la facoltà di architettura. Una grande passione per la materia e la storia dell’arte, la sua, quasi quanto quella sviluppata negli anni per lo studio di virus e batteri. Giulio Tarro – classe 1938, laureato all’Università Federico II con il massimo dei voti, allievo di Sabin (il virologo cui si deve il vaccino contro la poliomielite) e poi due volte candidato al Nobel per la Medicina – la prima volta che considerò di venire a Napoli per concludere gli studi ancora la ricorda.
Dove viveva, professore?
«Inizialmente, a Messina. È lì che sono nato e ho cominciato a studiare medicina».
Poi, però, ha cambiato città.
«Ero indeciso tra Napoli e Roma, ma alla fine scelsi la prima. Mi rimaneva solo lo studio delle cliniche e il Policlinico federiciano rappresentava un’eccellenza: dall’ostetricia alla neurologia fino alla radiologia, c’erano i professori migliori».
Così, fece le valige.
«Ricordo che alloggiavo nel collegio universitario Miranda – ne aveva diritto solo chi risiedeva oltre i 50 chilometri e aveva una buona media. Nel mio caso, c’erano entrambi i requisiti».
Studente modello, il professore Tarro.
«Mi piaceva studiare sui libri, non sul libro: leggere, informarmi, saperne sempre di più. Ancora mi viene da ridere quando penso all’esame di medicina legale».
Perché?
«In cattedra c’era il professore Palmieri, severissimo. Pur non essendo un esame particolarmente complesso, noi studenti sapevamo che bisognava studiarlo almeno sei mesi, altrimenti era inutile provarci».
E lei come andò?
«Molto bene. Presi trenta, fu un evento: Palmieri non metteva un voto così alto da dieci anni. Ricordo che accanto a lui c’era l’assistente, Romano, quello che poi avrebbe preso il suo posto, che gli disse: Professore, mettiamo anche la lode a Tarro?. Ma no – rispose lui – sono 10 anni che non do un 30 a nessuno, pure la lode mi sembra troppo».
Quindi: laurea napoletana.
«Peccato che dovetti lasciare il collegio, dove invece mi trovavo benissimo, ma ormai non ero più uno studente».
Dove andò a vivere?
«Al Policlinico».
Si spieghi meglio.
«La notte la passavo in clinica neurologica, ero quasi sempre di guardia, e di giorno invece lavoravo in patologia medica».
Non aveva una casa?
«No, l’ho detto: vivevo al Policlinico. Anche quando non ero di guardia, dormivo comunque lì».
Quanto tempo ha vissuto in ospedale?
«Tre anni, poi mi trasferii a Villa dei Gerani, dove facevo le guardie notturne in neurochirurgia che voleva dire non chiudere mai occhio. Ricordo che ero stanchissimo, quando mi comunicarono che avevo vinto una borsa di studio negli Stati Uniti. A quel punto, mi resi conto che dovevo riposarmi un po’ prima di affrontare un’esperienza impegnativa come quella».
Finalmente una casa?
«Una stanza a Forcella, per la verità, ma vi assicuro che si dormiva benissimo – che poi era esattamente quello di cui avevo bisogno».
Una borsa di studio negli Usa, diceva.
«Cincinnati, Ohio. Alla scuola del professore Albert Bruce Sabin».
Il medico famoso per aver sviluppato il vaccino contro la poliomielite.
«Proprio lui. Prima di partire lo avevo anche incontrato a cena a casa del professore Magrassi, mio maestro, un medico patologo studioso dei virus. Ci conoscemmo lì, e tra noi ci fu subito una grande sintonia, al punto che Sabin mise il danaro che mancava per farmi partire subito».
Quanto tempo è rimasto negli Usa?
«Circa quattro anni. Con il professore riuscimmo a dimostrare il ruolo dei virus nella comparsa dei tumori nell’uomo. Anni impegnativi, ma di grandi soddisfazioni. Rientrai in Italia solo quando Sabin decise di trasferirsi in Israele».
Fu contento di tornare a Napoli?
«Sì, per una ragione ben precisa: mi portai dietro un finanziamento del governo americano, grazie al quale fondai il primo laboratorio di ricerca al Cotugno. La Cassa per il Mezzogiorno fece il resto e acquistò le apparecchiature che mancavano».
Finalmente a casa, e per giunta con un laboratorio all’avanguardia.
«Lasciamo perdere: stavamo andando a pieno regime, quando Sabin, tornato da Israele, mi rivolle a Cincinnati. Lì, mi resi conto che in soli tre mesi avevo replicato lo stesso studio che a Napoli era durato tre anni: niente burocrazia e nessun vincolo, la ricerca volava. Nel frattempo, ero stato nominato, per titoli, primario di virologia al Cotugno – così, cominciai seriamente a pensare di rientrare».
Il richiamo del mare.
«Era la cosa che mi mancava di più. Davvero. Così, tornai, anche se il legame con l’America è sempre rimasto forte. Quando scoppiò il colera, ero a New York. Giugno 1973. Nella Fifth Avenue c’era la libreria Rizzoli, che vendeva i giornali. Comprai il Corriere della Sera, in prima pagina Colera a Napoli. Salii sul primo aereo e rientrai. Mi vaccinarono all’aeroporto di Fiumicino, per darmi la possibilità di lavorare in sicurezza».
Come affrontò l’epidemia?
«Con calma: da Sabin avevo visto ben altro. In ogni caso, il problema era isolare il vibrione al più presto. Lo trovammo in una partita di cozze tunisine e l’allarme rientrò».
Il colera, l’epidemia di Aids, il male oscuro che mieteva vittime tra i bambini di Napoli: non si è fatto mancare niente.
«Con la ricerca, lo studio, la competenza e la passione per il nostro lavoro, siamo riusciti a venire fuori da ogni emergenza».
Coronavirus: cosa ne pensa?
«Non prevedo mascherine sulla spiaggia. Con l’arrivo del caldo, finirà tutto; prova ne è che alle latitudini africane il Covid non attecchisce. Dobbiamo stare tranquilli, le misure necessarie sono state prese, bisogna solo aspettare».
Due volte candidato al Nobel, ma non lo ha mai avuto.
«Invece sì, dalle vite che ho salvato». Fonte: Il Mattino