Un po’ di storia, qualche immagine che possa rendere meno pesante l’astinenza da calcio. Soprattutto per i più giovani che, Maradona, quello vero, lo conoscono poco…
Coppa del Mondo 1986 Domenica 22 giugno, Città del Messico, Stadio Atzeca.
Quarti di finale Argentina 2 Inghilterra 1
Argentina (3-5-2): Pumpido; Cuciuffo, Brown, Ruggeri ; Giusti, Olarticoechea, Sergio Batista, Burruchaga (31’ st Tapia), Enrique; Maradona, Valdano. All.: Bilardo.
Inghilterra (4-4-2): Shilton; Stevens, Samson, Butcher, Fenwick; Hoddle, Reid (24? st Waddle), Steven (31’ st Barnes), Hodge; Beardsley, Lineker. All.: Robson.
MARCATORI: 6’ st e 10’ st Maradona (A), 36’ st Lineker (I)
ARBITRO: Ali Bin Nasser (Tunisia) Guardalinee: Morera e Dotchev NOTE: spettatori 114.580.
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Oggi, 22 giugno 1986, il cielo di Città del Messico è carico di presagi. Poche nuvole van silenziose, strappando la perfezione di un’immensa tela celeste. L’Azteca ribolle, splende di un’opulenza tronfia. E’ un Colosseo moderno che incute il rispetto che si deve ai templi. I messicani hanno cominciato a costruirlo ventitré anni fa, usando rocce laviche residuate di un’antica eruzione del vulcano Xitle. Ha ospitato i Giochi di Città del Messico nel ’68 e i Mondiali del ’70, custodisce nel suo scrigno i salti più straordinari che l’uomo abbia mai compiuto. Il salto di Bob Beamon, che scappa da un’infanzia balorda, esce dalla buca della sabbia, vola per 8 metri e 90 e atterra nel futuro. E il salto di Pelè, che si alza verso il cielo spinto da una forza divina e rimane in aria sospeso per un tempo eterno, un respiro lunghissimo di sollievo e beatitudine. Per noi italiani l’Azteca è il teatro della partita più memorabile di tutti i tempi, Italiagermaniaquattroatre. Oggi si gioca Argentina-Inghilterra, vale la semifinale del Mondiale. L’Argentina è qui dopo aver superato di misura l’Uruguay, l’Inghilterra si è sbarazzata del Paraguay con un rotondo3-0. Francia e Germania Ovest si sono già qualificate, vincendo rispettivamente contro il superfavorito Brasile e i padroni di casa del Messico. Chi passa oggi incontrerà la vincitrice di Belgio-Spagna.
Sono le 13.10, l’Argentina è già in vantaggio 1-0, la partita è cresciuta storta, come un adolescente ribelle. L’Argentina è una squadra di onesti mestieranti, con un divo a guidarli: Diego Armando Maradona. Tutto inizia con un balletto, ed è un nuovo inizio del mondo. Maradona parte da un posto impensabile, la propria metà campo, spostato a destra; raccogliendo un passaggio come se ne fanno a centinaia durante una partita, un tocco del «Negro» Enrique. Quando riceve il pallone ha le spalle alla porta, come se si disinteressasse di dove deve andare.
Si libera dei primi due avversari – Bearsdley e Reid – con un passo di danza leggero come un sospiro. Se esiste un’architettura della bellezza è qui che prende forma ed è qui che dobbiamo cercarla, in questo guizzo ferino in punta di piedi. Peter Reid gli sta alle calcagna, è tenace, ma è come un treno del Far West che arranca e sbuffa, umiliato dal volo di un uccello che gli sfreccia accanto. Maradona va in dribbling, col pallone incollato al piede. L’Azteca è un mostro che trattiene il respiro. I giocatori inglesi sembrano comparse di cartapesta, figuranti dentro un film che non è il loro. Jorge Valdano segue l’azione dall’inizio alla fine e ad un certo punto si trova solo in mezzo all’area come un naufrago: per un po’ ha reclamato il pallone, poi accetta il destino che sta per compiersi. L’ultimo ad opporsi a Maradona – questo uragano di bellezza che avanza – è Terry Fenwick, un inglese con un ciuffo che sa di punk; è il ciuffo di uno che a vent’anni spaccava chitarre e ora guarda la vita da dietro lo sportello di una banca. E’ una vita appannata, come i suoi riflessi. La sua indecisione – vado e l’affronto o indietreggio? – gli costa cara.
Quando tutto è già accaduto Terry Butcher si sfoga battendo i pugni per terra. E’ a terra, perché un attimo prima ha provato – o la va o la spacca – a colpire la caviglia di Maradona. Ci è riuscito, ma non ce l’ha fatta ad abbattere Diego, che dopo aver superato Fenwick ha sbilanciato con una finta Shilton e sempre di sinistro ha calciato il pallone in rete, mentre il terzino Gary Stevens – recuperando il terreno perduto – correva a vuoto e si preoccupava di marcare Jorge Burruchaga, perché – povero ingenuo – pensava che a Maradona venisse in mente di passargli il pallone. Ora Peter Shilton si rialza, si toglie la polvere di dosso, mette le mani sui fianchi e cerca qualcuno che gli dica cosa è successo. Ma lui è l’unico al mondo che ha visto l’azione – tutta l’azione – da quando ha cominciato a dipanarsi: come essere entrato nella testa di Michelangelo, la notte prima che cominciasse a dipingere il «Giudizio Universale». Ne è spaventato, il vecchio Shilton. La bellezza spaventa sempre. Per tutta la durata dell’azione «El Diez» ha sbirciato i movimenti di Valdano ma non ha mai pensato seriamente – mai, nemmeno per un istante – di passargli il pallone. E’ un prestigiatore, l’inganno è il suo mestiere. Quattro minuti prima ha segnato un gol con la mano, quel pugnetto mancino che diventerà «La mano de Dios». Per festeggiare Maradona è corso verso la bandierina, come un bambino che l’ha fatta grossa e scappa lontano, guardando di sguincio se l’hanno scoperto. No, non l’hanno scoperto. A fine partita Maradona dice che è stato come «rubare il portafoglio agli inglesi».
Ma oggi questo vulcano in eruzione se lo sono preso gli argentini. I tifosi inglesi sono a torso nudo, la pelle bruciata da un sole a cui non sono abituati. L’inno inglese è stato fischiato furiosamente. Non c’è in gioco solo una partita. Da giorni lo stadio è presidiato da squadroni di «Granaderos», i soldati messicani con le baionette a tracolla. Temono scontri, sono qui per evitare che le due tifoserie vengano in contatto. Nella curva dove stanno gli argentini c’è uno striscione. Recita: «Amate Malvine, sempre argentine». C’è di mezzo una guerra. La guerra delle Falkland, come la chiamano gli inglesi; o delle Malvinas, come dicono gli argentini. Quattro anni fa il presidente dell’Argentina Leopoldo Galtieri – uno dei generali che hanno partecipato al colpo di stato che ha portato al governo la Giunta Militare – in un momento di pesante crisi economica, ha giocato la carta del nazionalismo rivendicando la sovranità delle Malvinas. La task force navale del Regno Unito però ha avuto la meglio. Nei 74 giorni di battaglia sono morti 900 argentini. L’Argentina vive questo gol come il compimento di una vendetta. Alla vigilia i giocatori del «Nason» Bilardo hanno ricevuto un telegramma firmato dai reduci di guerra. C’era scritto: «Perdamos o ganemos, a Malvinas volveremos». «Che si vinca o si perda, torneremo alle Malvinas». Ieri in conferenza stampa Maradona ha detto che «E’ solo una partita di calcio», ma è lui stesso il primo a non crederci. E’ il giorno della «Revancha» che il popolo argentino ha atteso a lungo. «O, un bacio, lungo come il mio esilio, dolce come la mia vendetta», avrebbe scritto Shakespeare se solo l’avesse visto, questo gol bellissimo, struggente e velenoso.
Sei anni fa e sempre contro l’Inghilterra – il 13 maggio del 1980 a Wembley – Diego ha fatto lo stesso incredibile slalom ma una volta giunto davanti al portiere avversario, Ray Clemence, ha concluso calciando di lato. Il pallone è finito fuori di pochissimo, l’urlo gli si è spento in gola. Il giorno dopo suo fratello più piccolo, detto il «Turco», l’ha chiamato e al telefono l’ha bacchettato. «Pelusa, sei un cogl…., dovevi fintare e scartare anche il portiere». Se n’è ricordato ora, riaccendendo quella stessa scintilla che se n’era rimasta per sei lunghi anni nascosta in qualche angolo della sua memoria, ripiegato tra i muscoli e la follia. Quando Maradona segna il 2-0 mancano ancora 35 minuti alla fine. Più tardi l’Inghilterra accorcia le distanze con John Barnes, maestosa ala sinistra dal piede vellutato. E nel finale va vicinissima al pareggio. Succede quando – all’ennesimo cross che sta per cadere nell’area argentina – il portiere Nery Pumpido viene superato dalla traiettoria e il centravanti inglese, Gary Lineker si appresta a spingere – di testa – il pallone in rete. L’ha fatto tante volte, nella sua vita. Sono i suoi gol, quelli. Ma chissà da dove – da quale anfratto del destino – spunta alle sue spalle Julio Olarticoechea e tocca il pallone quel tanto che basta per deviarlo, un giro di vento oltre le possibilità umane di Lineker. E’ finita: Argentina-Inghilterra 2-1, l’Albiceleste è in semifinale.
L’Azteca risuona dei cori degli argentini. Sono ebbri di felicità. Ballano, cantano. «Argentina va salir campeon/Argentina va salir campeon». Lì dove Maradona ha segnato – in quel punto esatto dentro l’area di rigore – prima dell’Azteca e prima di tutto questo, in un tempo lontano sorgeva un altare in onore di una santa, Santa Ursula. Nell’iconografia popolare la santa è rappresentata come una principessa, con la corona in testa. Quella corona oggi – 22 giugno 1986 – se l’è presa Diego Armando Maradona. Quando ha segnato, in quel tumulto che ha scosso il mondo, mentre gli inglesi si guardavano attorno smarriti, è successa questa piccola magnifica cosa. Valdano si disinteressa dell’esultanza di Diego e va a raccogliere il pallone in fondo alla porta. Prende il pallone tra le mani, lo guarda e poi lo bacia. Dobbiamo sempre provare gratitudine della bellezza che ci circonda.
Fonte: CdS