L’ex Savoldi da Ponteranica (Bg): “Da Napoli m i hanno chiamato per sapere della situazione”

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A Ponteranica c’è il sole, la trincea di Bergamo è tutta intorno e si estende per chilometri e chilometri, Beppe Savoldi: «Ho visto i camion dell’esercito, li abbiamo visti tutti, no? Mi hanno chiamato gli amici, tanti, anche quelli che non sentivo da un sacco di tempo. È che ti viene spontaneo, vedi certe cose e tiri su il telefono e chiami, chiedi come va, come stai, stai bene, resisti. Le cose semplici. Io quando li ho visti mi sono fermato un momento. È un’immagine che mi ha colpito. Mi ha impressionato davvero. Poi sono andato alla scrivania, nel tempo libero scrivo poesie, lo faccio quando me la sento, quando me le sento dentro, e allora ho voluto buttare giù qualcosa. Mi è venuto spontaneo. Ho scritto che i nostri morti non hanno nemmeno il modo di riposare, non c’è più terra, non c’è più posto. È una grande tristezza». 

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Beppe Savoldi resta confinato nella sua ultima certezza, la sua casa, il suo giardino, con sua moglie, in un angolo di quiete e di armonia. «Sono fortunato. Con mia moglie ho fatto l’accordo: io faccio le pulizie, lei cucina. Le ho fatte stamattina, poi mi sono fatto una doccia e ho mangiato un piatto di pasta. Adesso sono qui al sole, sono quattro o cinque giorni che lo prendo, sono tutto abbronzato. Si sta bene, è una bella giornata».

Gli viene da ridere, poi la voce si abbassa di nuovo, torna nella caverna delle ansie, delle incertezze. L’uomo dei gol, Mr. Miliardo, l’Atalanta, il Napoli, il Bologna: anche per lui quella del coronavirus è un’altra vita, una vita sagomata, quasi finta, irreale. «Qui da noi è una tragedia. Siamo messi male. Vivo in una zona che io chiamo dormitorio, non ci sono fabbriche, non ci sono le aziende. La classica zona residenziale, con le case e poco altro. Adesso si sentono le ambulanze, e l’elicottero del pronto soccorso che attraversa il cielo, passa su Città Alta e poi si ferma».

Vorrebbe ridere, Savoldi, a 73 anni il gusto della vita è pieno. Con quel suo sorriso netto come un rasoio, pungente ma dolce, educato, gentile. Da canaglia buona dei film western.

«Paura? Ho un po’ di timore, sì ce l’ho. Anche perché non siamo più giovani, siamo considerati quelli più vulnerabili. I soggetti a rischio. Stiamo in casa, stiamo attenti. Sopra di me abita mia figlia con mio nipote. Ma non ci vediamo, stiamo a distanza perché lei qualche contatto con l’esterno ce l’ha. Il negozio di ottica, la spesa: meglio tenere la sicurezza, non si può mai sapere. Io vorrei giocare a tennis, ma non posso. L’inverno mi butto sempre sul tennis, d’estate vado in bicicletta. Per fare un po’ di movimento come faccio? Allora mi è venuta l’idea di mettere la bici sul treppiede in taverna: l’ho montata sui rulli, ci sto un po’, mezz’ora, un’ora. Sfogo, altrimenti è dura». 

Per cosa c’è spazio nelle sue giornate? 
«Le cose essenziali. Mio figlio Gianluca sta a Como, è lì con altri due nipoti. Per fortuna che ci sono i telefonini, ci vediamo con le videochiamate. Almeno questo è positivo».

Cosa c’è dopo il Coronavirus? 
«Tornerà tutto normale. E poi come sempre, come è sempre successo, dopo una disgrazia ritorna il sole. Questa almeno è la speranza, è quello che dobbiamo pensare, volere».

Lei è del ’47. I suoi nonni e i suoi genitori hanno fatto le guerre.
«I nonni sono morti presto, ma i racconti di guerra li ho sentiti. Anche dai miei suoceri. Tragedie, momenti difficilissimi. Io sono nato a Gorlago, che è fuori Bergamo, fuori dal centro. Raccontavano degli aerei che passavano sulle teste, andavano a Milano, che anche all’epoca era la città industriale, del commercio, e andavano a bombardare. I miei si andavano a nascondere in cantina, in posti sicuri».

E oggi come si fa a scappare?
«È difficile fare un paragone, è impossibile. Quel periodo non l’ho vissuto e chi non l’ha vissuto non lo conosce. Loro però scappavano da qualcosa, dagli aerei. Noi no, non scappiamo. Ma ci teniamo a distanza, lontano da qualsiasi contatto».

A Bologna ha sentito qualcuno?  
«Ho degli amici, ci sentiamo. Seguo l’evolversi della situazione qui e ovunque. Mi chiamano un po’ dappertutto. D’altra parte, come ho detto, la situazione è davvero impressionante».
 
E a Napoli? Anche quella è una città che porta nel cuore.
«Certo. Nei primi giorni mi chiamavano per chiedermi della situazione, lì ancora non era arrivato tutto il casino. Volevano sapere un po’». 

Ha perso amici in questa guerra? 
«No, ma ci sono persone a me care che hanno perso le mamme e i papà, i genitori, una generazione che sta soffrendo. Ultimamente mi chiama spesso un mio amico pittore, dal Friuli, cerchiamo di farci forza».

La aiuta scrivere? 
«Appunto le cose, lo faccio quando sento qualcosa. Tutti noi abbiamo tenuto un diario, messo giù pensieri. Però a me piace farlo quando davvero avverto di avere da dire. Ho iniziato a scrivere filastrocche quando sono nati i miei nipoti. L’anno scorso ho iniziato a scriverle anche in dialetto bergamasco. E poi mi piacciono le poesie, per la rima e per dare un senso al tutto. È un doppio sforzo». 

Che sforzo sta facendo il calcio, come si sta comportando in questa situazione? 
«Con un po’ di ritardo, ma hanno capito che dovevano prendere delle decisioni forti, drastiche. Dare delle date adesso a cosa serve? Decideranno poi, quando sarà il momento. Ma certo, capisco anche l’altra faccia della medaglia».

Quale?
«C’è bisogno di un po’ di normalità, le persone hanno anche bisogno di sentirsi dire riprendiamo a maggio, ricominciamo, ce la facciamo. Per portare via un po’ di tristezza. È comprensibile. Ma bisogna aspettare che finisca».

L’Atalanta sarà ancora il sogno per la città. «Credo di sì, sicuramente sì. Non cambierà. E poi non è che da questa situazione la squadra possa perdere qualità o quello che è stata fino a oggi. I giocatori riprenderanno l’entusiasmo che avevano prima. Ma spero una cosa, in generale». 

Che cosa? 
«Che questa situazione ci aiuti a capire, a riflettere, che la gente torni a sentire un po’ di senso sociale, di amore nei confronti degli altri. Rapporti interumani, e dunque che sia un momento di riflessione». 

È una speranza. 
«Io sono abbastanza vecchio per dire che magari ritorneremo a essere invidiosi, gelosi, arrivisti come lo siamo sempre stati. E dopo diremo: non è cambiato niente. Ma mi auguro di no».

La situazione stipendi come la vede? Ridurli o no? Tra sindacati e calcio che succederà?
«Il sindacato difende i lavoratori, è normale. Ma vista la drammatica situazione spero che una parte e l’altra si mettano d’accordo senza storie. Non mi pare il caso nemmeno di discutere. I giocatori potrebbero rinunciare e le società potrebbero donarli in beneficienza». 

A Bergamo si ripartirà dal sogno della Champions? 
«Poteva succedere di tutto. Mica era una squadra partita per vincere la coppa, ma per come stava andando era tutto possibile. L’Atalanta è andata oltre qualsiasi progetto, cose eccezionali, oltre ogni prospettiva. Quando nel calcio non hai grandi affanni a livello psicologico, non hai l’assillo di dover vincere, è allora che vinci». 

E il Bologna? 
«Stava già facendo molto con la qualità dei suoi giocatori. Forse è presto per l’Europa. Io ho continuato a elogiare la squadra, i calciatori grazie a Mihajlovic si sono trasformati. Vedi Palacio, Poli…».

Sono loro i trascinatori. 
«Trascinatori veri. Palacio, poi, alla sua età sta dimostrando ancora di essere un giocatore molto forte. E poi gli altri giovani davanti hanno dato una mano. È una squadra che può togliersi delle soddisfazioni».

A proposito di Mihajlovic, la sua storia l’ha toccata?
«Uno che ha avuto quello che ha avuto lui ed è tornato nonostante tutto, con quella forza, quel carattere, quella volontà, è una grande dimostrazione. È un uomo di carattere, lo è sempre stato, anche da giocatore. Questo suo modo credo abbia influito sui giocatori, li ha fatti riflettere, li ha fatti pensare: “Sta facendo tanti sacrifici, facciamoli anche noi”. È così ha creato uno spirito di gruppo». 

Ci insegna qualcosa anche in tempi di virus.
«I sacrifici e la forza di volontà sono sempre insegnamenti».  

Diceva dei giovani. Barrow? 
«Con Musa dobbiamo andare indietro nel tempo e ricostruire la sua storia. Alla fine del campionato in cui era esploso e aveva fatto benissimo l’avevamo visto come un gran giocatore. Poi il calo. Perché? Come mai?».

Che risposta si è dato?
«Non aveva ancora acquistato quella sicurezza, quella padronanza nell’essere titolare. Quando si è accorto di avere una responsabilità allora ha sbagliato. Ha sentito una sorta di peso per quello che doveva interpretare. Ha sbagliato qualcosa, anche le cose semplici non gli venivano. Si era caricato troppo. A Bologna ha riflettuto, ha capito come fare, come comportarsi alla luce dell’esperienza fatta».

 E Orsolini? È uno dei talenti azzurri.
«Grandi doti, grandi qualità. Ma ogni tanto mi dà l’impressione di voler fare qualcosa in più rispetto al momento. La giocata immediata, il passaggio. A volte va in confusione. Ma è un giocatore di valore, che sarà importante anche per il futuro». 

Futuro. È sempre la parola chiave. 
«Venerdì scorso guardavo la tv, c’era Gianfelice Facchetti, il figlio di Giacinto. E diceva una cose bellissime, che sperava che questa situazione ci svegli, che nella testa della gente rimanga qualcosa. Penso anche a quell’inquinamento, è possibile che abbia inciso?». 

Gli esperti ne hanno parlato.
«Non lo so, ma certamente i valori sono sempre alti, nelle regioni più industrializzate è un problema anche quello. Ho scritto anche una poesia, ce l’ho qui davanti. Fa così: Di boria ci ammantiamo/ di troppe cose ci vantiamo/ di un virus ci ammaliamo e a questo punto la testa abbassiamo. E ancora: Un grido di avvertimento/ cambiate il vostro comportamento/ questo è il momento/ fermate l’inquinamento». Fonte: CdS

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