Non è il più urgente dei bisogni pensare agli scudetti sospesi, ai campionati spezzati e alle classifiche congelate per provare a interrompere la diffusione del Covid-19. Ma è anche guardando agli scudetti sospesi che si può provare a leggere quello che ci sta capitando, in che direzione andiamo, chi sta guidando la nave sulla quale viaggiamo tutti. L’incertezza è l’unica certezza rimasta al calcio. Nessuno può dirsi sicuro che si tornerà a giocare, né ad aprile, né a maggio, né a giugno. L’epidemia è in viaggio. È un’onda che si sposta verso il West.
Lo sport si è fermato in Italia in coincidenza di un primo picco, ma si è fermato anche altrove, nei luoghi in cui i contagi sono inferiori per numero, Paesi che potrebbero non essere nelle condizioni di ricominciare nel giro di un mese o due. I medici e gli infermieri non si fermano un istante. I cittadini stanno provando a dare il loro contributo rinunciando alla libertà. Tutto quello che fino a una settimana fa ci appassionava, adesso pare stonato. Un gol, una parata, uno scudetto. Non c’è forse mai stata nella storia più distanza tra lo sport e il sentimento popolare, nemmeno durante la guerra. Perché nel frattempo la separazione fra sé e il resto del mondo è stato lo sport a scavarla negli anni, dando l’impressione di vivere una realtà tutta sua, una bolla inaccessibile di vizi e vezzi, prima ancora che di ricchezza e di privilegi. Fonte: CdS