Dr. Gismondo (Virologa): “I calciatori i più esposti al Covid-19, vi spiego perchè”
Positivi al nuovo coronavirus (Covid-19) anche i primi calciatori della serie A italiana. L’attaccante della Sampdoria Manolo Gabbiadini è risultato positivo al test, prima di lui il difensore bianconero Daniele Rugani. Juventus, Inter, Sampdoria ed Hellas Verona (l’ultima avversaria della Sampdoria) sono in quarantena. In quarantena c’è anche tutto il Real Madrid: positivo un giocatore della formazione di basket, ma la squadra di calcio si allena nello stesso centro sportivo di Valdebebas. Intanto dalla stampa inglese arriva la notizia di tre casi sospetti in Premier League.
Questi atleti rischiano conseguenze, strascichi una volta negativizzati?
«Assolutamente no, 14 giorni a casa con mascherina e un bagno proprio, se invece ci sono sintomi come quelli di un raffreddore o di un’influenza occorreranno altri 14 giorni di isolamento una volta finiti i sintomi. Dopo torneranno in forma come quando si ha una forma influenzale».
Di sport non se ne intende molto, ma di virus sì. Maria Rita Gismondo, università statale di Milano, direttrice della Microbiologia Clinica, Virologia e Bio-emergenze dell’ospedale, polo universitario, Sacco di Milano. Diventata nota in questi giorni anche per gli attacchi sui social da parte dell’immunologo Roberto Burioni per una diversa interpretazione della situazione. La Gismondo ridimensionava, almeno in parte, le paure sul contagio da Covid-19: «Non voglio sminuire il coronavirus ma i problemi che porta rimangono appena superiori all’influenza stagionale», aveva detto il 21 febbraio. Burioni l’aveva attaccata sui social per questo ridimensionamento.
E ora che i numeri sono arrivati a 10.600 i casi positivi e 830 i morti la Gismondo resta sulla sua posizione?
«Sì, non ho cambiato idea. Anche perché non ho mai sottovalutato questo nuovo virus sconosciuto, ma non è certo la peste nera manzoniana. Non possiamo guardare i numeri del giorno e farne un’estrapolazione per fare una descrizione del fenomeno intero. Siamo liberi da un virus quando è trascorso il periodo massimo di quarantena, in questo caso 15 giorni, dall’ultimo caso positivo. Dobbiamo osservare questo lungo periodo e poi magari tirare un sospiro di sollievo. E comunque a livello di malattie infettive c’è di peggio, sia in termini di diffusione sia in termini di letalità. Il concetto è che non possiamo gridare alla peste nera. Ma è più letale, dicono. Sì, ma sui casi confermati, che potrebbero essere molti di meno dei casi reali. Il 60-70% degli italiani potrebbe essere venuta a contatto con il virus e il 90% di questi senza sintomi. Possono essere stati positivi senza saperlo e senza sentire il bisogno di fare un tampone. Così potrebbero avere inconsapevolmente infettato altri».
Ancora la Gismondo: «Non parliamo poi di influenze o polmoniti verificatesi mesi prima l’allerta di gennaio, e da febbraio in Italia, e curate senza nemmeno ipotizzare un nuovo virus. Quindi il numero di morti andrebbe valutato in base al numero di infettati reali. E anche i morti da coronavirus dovrebbero essere confermati dall’autopsia, come si fa in molti altri Paesi, Stati Uniti in testa, dove poi i decessi da coronavirus risultano più bassi di quelli italiani. Da noi sono collegati al Covid-19 perché risulta una positività al virus ma non è detto che poi sia il virus la causa, visto che di solito sono pazienti con altre gravi patologie. Nei due mesi successivi al 20 febbraio abbiamo registrato circa 700 decessi collegati al Covid-19 ma in realtà solo in apparenza collegabili. Certo il virus potrebbe aggravare altre situazioni patologiche e noi dobbiamo bloccarlo comunque in modo da salvare i pazienti, però dobbiamo anche verificare con l’autopsia la vera causa della morte. Nel frattempo, in Italia si sono verificati in quattro mesi circa 8.000 decessi collegabili al virus influenzale. Ecco perché il paragone con l’influenza va fatto, come va fatto con la polmonite da pneumococco, quarta causa di morte al mondo negli over 65. E i mille nuovi casi di Hiv ogni anno in Italia, di cui nessuno parla. E l’Hiv è pandemia mai risolta. Abbiamo avuto anche un’influenza suina nel 2009, definita pandemia dall’Oms, che ha infettato milioni di persone e ne ha uccise 203mila. Fece meno rumore del Covid-19. E a proposito di capacità di contagio, ogni positivo al Covid-19 può infettare altre 2-3 persone, ma un infettato da morbillo, per esempio, ne infetta altre 18 di persone».
Allora che si fa? Il morbillo come la peste nera?
«Appunto».
Come è partito il contagio nel nostro Paese?
«Il contagio da Covid-19 in Italia è partito da un ospedale, quello di Codogno, dove un paziente con il nuovo coronavirus è stato ricoverato senza che fosse chiara la causa della sua patologia respiratoria. Lì è avvenuta la disseminazione di tanti contagi contemporanei. Di qui la differenza tra la Lombardia e il resto d’Italia, tra l’Italia e altri Paesi. Poi c’è il fatto che da noi poi i test si fanno a tappeto, a carico del servizio sanitario. Negli Stati Uniti per esempio sono a carico dei privati, al costo di 3.300 dollari, in parte rimborsati dalle assicurazioni ma nella maggior parte dei casi a carico del sospetto infettato. E chi vuole spendere 3.300 dollari per un tampone? Di qui falle nei controlli e numero di casi confermati basso».
Quindi, se ho capito bene, nel nostro Paese il virus si sarebbe diffuso in modo silente almeno dall’inizio di gennaio?
«Sì. E come ho detto è plausibile supporre che molti casi di polmonite verificatisi in Italia e nella zona del Basso Lodigiano già dopo Natale possano essere contagi concreti da Covid-19. Già a fine dicembre noi abbiamo iniziato a lavorare sulla base di strane polmoniti cinesi segnalate dall’Oms. In quel momento avevamo sintomi influenzali simili al Covid-19, per di più concentrati in un picco stagionale normale».
Tornando ai calciatori risultati positivi, gli atleti sono più esposti al contagio?
«Sì, sia per una sorta di momentanea depressione immunitaria conseguente a uno sforzo fisico intenso sia perché poi sono a contatto come avviene negli spogliatoi dove il caldo umido ambientale favorisce la persistenza delle goccioline di tosse o starnuti nell’aria e nell’ambiente. Di conseguenza se c’è un soggetto infettato ma senza sintomi diventa facile fonte di contagio. Quindi quarantena obbligata per le due squadre ma anche per i familiari di chi risulta positivo».
Influenza e coronavirus. Come riconoscere l’una o l’altra infezione?
«Entrambe sindromi virali, che più o meno causano febbre, tosse, dolori muscolari e affaticamento. Tuttavia, in alcuni casi l’influenza ha un inizio più brutale, con febbre alta e forti dolori. Nel caso di Covid-19 invece la febbre sembra più moderata tanto che i pazienti non sono costretti a letto come nel caso dell’influenza. Le difficoltà respiratorie, poi, possono aggravarsi».
Quello che preoccupa di più la virologa dell’università degli studi di Milano è l’impatto sull’organizzazione sanitaria. Ecco qual è l’emergenza che si poteva evitare perché carenza di medici, di infermieri e di posti letto in rianimazione era immaginabile.
«In particolare, l’aver avuto in poco tempo tanti casi. Ecco perché occorre rispondere in un periodo molto breve a tanti ricoveri in terapia intensiva. Non perché è la peste nera del Terzo millennio».
Nel laboratorio di analisi dell’ospedale Luigi Sacco di Milano, punto di riferimento per il Nord Italia per effettuare gli esami dei tamponi che rilevano la positività al coronavirus, si lavora giorno e notte, senza sosta. Arrivano migliaia di campioni, la stragrande maggioranza negativi.
C’è il rischio burnout negli ospedali? Il “bruciarsi” a causa dello stress, per gli operatori sanitari è ipotizzabile?
«Certo, anche per chi esamina i test a ritmi fuori del normale».
In burnout gli operatori, in burnout le terapie intensive.
Che cosa pensa del ritorno al lavoro dei medici in pensione?
«Assumiamo piuttosto energie nuove che sono pronte, sapevamo che saremmo rimasti scoperti di medici e non solo in questo settore. Io nel mio laboratorio ho 4-5 precari con un futuro non roseo».
Che cosa pensa dell’Italia tutta chiusa a casa per 15 giorni? Un Paese in quarantena.
«Ottima decisione, il contenimento della diffusione con un cordone sanitario è l’unica strategia per risolvere l’emergenza posti nelle rianimazioni. Ripeto il vero problema, per le ricadute rispetto a tutti gli altri malati, è l’impatto sull’organizzazione sanitaria di tanti ricoveri in terapia intensiva in un ristretto lasso di tempo. Creando questo cordone sanitario speriamo almeno di decimare i casi da terapia intensiva, se non di arrivare a zero contagi come a Wuhan e a Codogno, in una ventina di giorni, un mese. Restare tutti a casa è decisivo per frenare il contagio, sembra che gran parte degli italiani lo abbia capito».
E la fine dell’emergenza, la fine della paura?
«Se tutto va come previsto all’inizio dell’estate dovremmo esserne fuori».
Anche perché ai virus influenzali di norma il caldo non piace.
Quindi ha cambiato idea sulla pericolosità del nuovo coronavirus?
«No, non ho cambiato idea. Anche perché non ho mai sottovalutato questo nuovo virus sconosciuto, ma ripeto ancora una volta non è certo la peste nera manzoniana».
Fonte: CdS