Seduto sulla panchina, nel freddo anestetizzante di Castel Volturno, in quel filo di malinconia che avvolge, Rino Gattuso divide se stesso in due e tra l’allenatore e lo psicologo deve scegliere quale ruolo recitare. C’è una squadra che s’è persa nelle tenebre d’una notte, quella del 5 novembre, e gli «ammutinati» che ne «hanno fatto di danni» (Insigne dixit) sono prigionieri di se stessi, d’immagini che si replicano all’infinito e si trasformano un boomerang. Serve una scossa, che sia dialettica ancora prima che tecnica, perché a quel Napoli c’è poco da insegnare: «Questa è una squadra di qualità come poche». Quando Napoli-Fiorentina è appena finita, e una notte (quasi) intera se ne è andata a disquisire sui motivi d’una resa netta, dolorosa, Gattuso interviene, sceglie il dialogo, si sistema al centro dei problemi e li spazza via, consapevole d’una crisi ch’è ormai è di tutti, è anche la sua, e che non esistono terapie, se non la chiarezza. Un’analisi seria, severa, rigorosa che eviti i compromessi e diventi un patto da assecondare attraverso un «codice»: c’è ancora un girone di campionato – diciotto giornate, che rappresentano un’ancora alla quale aggrapparsi. E poi verranno la coppa Italia e, assai più in là, la Champions League la seduzione del Barcellona.