Amarcord – di Stefano Iaconis: “C’era una volta…”

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C’era una volta la coppa delle coppe. Era il trofeo calcistico che giocavano i vincitori delle coppe nazionali, in Europa. C’era una volta, adesso non c’e’ più. Come tante altre cose abbandonate sulle soffitte del ricordo. Che vivono solo nelle memorie di quelli che sospirano ricordando quel calcio. Che oggi chiamerebbero antico. C’era una volta una squadra di football formidabile, tra la metà degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. Quella squadra si chiamava Anderlecht. Veniva dal Belgio. Ed il solo nome, sussurrato, faceva tremare le ginocchia rendendole molli. Perche’ ci giocavano, tra gli altri, in quella formazione, Arie Haan, l’uomo dal piede formidabile e la sapienza tattica inarrivabile e Rob Rensenbrink, l’ala sinistra dal tiro inarrestabile. Anderlecht significava, dunque, anche Olanda. Quella conosciuta come “l’arancia meccanica” di Rinus Michels. Quella che nei mondiali di due anni prima, in Germania, aveva incantato. Cedendo solo ai padroni di casa. Incredibilmente. A Gerd Muller. Quella nella quale giocava il numero 14 entrato nella leggenda. Johan Cruyjff. Vestivano di bianco malva, i belgi, ed assieme al Liverpool, al Real Madrid, al Bayern, rappresentavano il Gotha. Il Walhalla. L’Olimpo del football. E c’era una volta una piccola, grande squadra. Piccola, perche’ nell’Europa del tempo nessuno la conosceva, ma grande perchè accompagnata da una passione, da un calore, da una simbiosi con il suo popolo così potente, da ammantarne il nome di suggestione. Quella squadra era il Napoli. E c’era una volta un uomo, conosciuto come il “capitano”. Da sempre. Ecco, questa è la storia di una formidabile squadra, di un piccolo Davide in calzettoni e maglia azzurra che la sfidò, e per poco non la vinse, e di quel “capitano”. Quell’ anno del Signore calcistico, il 1976/77, il Napoli si era iscritto alla compianta Coppa delle Coppe. Aveva battuto il Verona all’Olimpico di Roma, nella finale di Coppa Italia, e si era fregiato del cerchio tricolore sulla maglia. La sua storia nelle campagne europee, era appena stata affrescata dalla clamorosa vittoria nella coppa italo inglese, altro smarrito trofeo nei meandri del nuovo che avanza. A passo di carica. E distrugge. Il Southampton di Channon, altro leggendario minotauro dell’epoca, che sulla Manica aveva rimediato un risicato 1 a 0, era stato travolto al San Paolo. 4 a 0 e giro di campo, nel tripudio dei 70 mila. Il sorteggio era stato benevolo. Riservando agli azzurri un avversario comodo comodo. Il Bodoe Glimt. Dopolavoristi norvegesi liquidati con un 5 a 0 totale. Secondo turno ed il Napoli incrocia un altro carneade, per l’epoca. L’Apoel Nicosia. All’andata, a Cipro, su un campo in terra battuta e qualche rado filo d’erba, Savoldi strappa un 1 a 1 che sotto il Vesuvio viene trasformato in un 2 a 0 che vale il terzo turno. I quarti di finale. Contro lo Slask Wroclaw. Formazione polacca. Ostica. Imprevedibile. Semi sconosciuta. E’ la partita di Nevio Favaro. Qui si spalancheranno occhi e si ricorrerà agli almanacchi. Favaro era il secondo di Carmignani. Indisposto quel giorno. Febbrone da cavallo. Esibiva, Favaro, un bel paio di baffi da ballerino portoricano, l’aria da rude malinconico, ed aveva una particolarità niente male: non giocava praticamente mai. Roba da farsi venire il mal di pancia, per il tifoso. Ma quel pomeriggio, a Wroclaw, dentro uno stadio dal frastuono riverberato da televisioni a manopola in bianco e nero, Favaro parò tutto. Ma proprio tutto. Inchiodando i polacchi sullo 0 a 0. Nel match di ritorno Fuorigrotta si paralizzo’. Alle 15 di un mercoledì pomeriggio, con il San Paolo stipato come un granaio durante la mietitura, trascinato da un Chiarugi in stato di grazia, il Napoli, vincendo 2 a 0, guadagnò, incredibilmente, l’accesso alle semifinali. Contro l’Anderlecht. Contro Arie Haan. E soprattutto, Rob Rensenbrink. Pesaola, l’indimenticabile “Petisso” in cappotto di cammello anche in pieno aprile, affidò la marcatura dello spauracchio olandese, al “capitano” di questa storia. Giuseppe Bruscolotti da Sassano. Bruscolotti, probabilmente, quando gli venne comunicato il compito, non battè ciglio. Si limitò ad annuire. Restando imperturbabile. Solo la sua celebre mascella ebbe un guizzo. E qualcosa brillò in fondo agli occhi. Quel giorno di aprile rimase impresso nella memoria del povero Rensenbrink. Per sempre. Fu forse in quel giorno infausto per la celebre ala sinistra, che Bruscolotti si guadagnò il suo temibile appellativo: “pal ‘e fierro”. Palo di ferro. Rensenbrink non lo supero’ mai. Subendo la prepotenza fisica del “capitano” in maniera ossessiva. Nella sola occasione in cui l’orange gli andò via, Bruscolotti ricorse alle maniere forti. Anzi fortissime. E lui, Rob, l’elegante e sottile ala sinistra che terrorizzava le difese di tutta Europa, rientrò in campo con un vistoso turbante. Girando da quel momento alla larga. Terrorizzato. E con lui l’Anderlecht. Annichilito da un San Paolo che ruggì il suo clamore annientando i belgi. Quel giorno il Napoli fu formidabile. Giocò una partita restata nella storia. A dodici minuti dalla fine il “capitano”, gelò con un’occhiata l’uomo che aveva in marcatura e galoppò oltre la metà campo. Ricevette il pallone di ritorno scambiandolo al limite dell’area belga, e sebbene inseguito da un avversario, decentrato, con una visione dello specchio della porta minuscola, chiuse gli occhi e tirò. Dal basso verso l’alto. Un proiettile. Che si infilò nel “sette” e fece venire giù Fuorigrotta. La fece crollare. L’ urlo si udì fino alle isole prospicienti il golfo. Fin sull’Olimpo e sul Walhalla. Fin sul Gotha. Al ritorno, al Parco dei Principi di Bruxelles, l’Anderlecht ribalto’ ogni cosa. Naturalmente. Termino’ 2 a 0. Ma fu annullato un gol a Speggiorin. Misteriosamente. Dopo nemmeno due minuti. A nulla valsero le proteste e la disperazione degli azzurri. L’arbitro si chiamava Mathewson. Era un inglese. E trent’anni dopo venne fuori uno scandalo. Ma questa è un’ altra storia. Perchè c’era una volta un calcio che vive oramai solo nelle fantasie di chi chiudendo gli occhi, ne può evocare la meraviglia legata al racconto che diventa fiaba. Ma ogni storia, ha la sua storia.

Factory della Comunicazione

a cura di Stefano Iaconis

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