Piove che Noè ha dimenticato il soffione della doccia con il getto aperto. Ed anche tutti i rubinetti del bagno. E sta dando le ultime martellate all’arca, con le foche che hanno preso possesso del lavandino in cucina. E protestano che è terminato il ghiaccio. Io ho il mio giubbotto scozzese d’ordinanza. Sono lì, sui gradoni del settore “distinti”. Pietra smussata da intemperie e sole rovente. Rigorosamente non numerati. Dove si sta seduti solo aspettando il fischio d’inizio. E durante l’intervallo. Poi tutti in piedi. A soffiare lenzuoli di fiamme sul prato. Seguendo le curve. Dove il soffio del tifo diviene il soffio del drago. Ho il ciuffo nero incollato alla fronte, l’ombrello che resiste eroicamente all’assalto della tempesta, con il vento che spira di traverso e spezza la pioggia in milioni di aghi che mi sferzano il volto. Le scarpe sono piccole imbarcazioni immerse nei ruscelli che scorrono ai mie piedi. Il San Paolo e’ un luogo antico. La memoria lo richiama in vita seguendo i meandri di reminiscenze che non oppongono alcuna resistenza. E vengono fuori saltellando. Un catino senza alcuna copertura. Il tempio. Simile a quello di Gerusalemme. Un luogo sacro. Prima dell’avvento del Re dei re. Papa’ ha abbandonato ogni velleità’ di protezione dall’uragano. Sta li, zuppo d’acqua, il cappello di feltro con due dita d’acqua nella falda, gocce come perle che scivolano dal naso, finendo sul cappotto. Fradicio. Sul prato è Napoli/Lanerossi Vicenza. Davanti a 70 mila. I soliti. Quelli di sempre. Di ogni Domenica. Mai uno di meno. E’ un anno terribile, il Napoli arranca. Non vince da tempo immemore, non segna mai. Viene da 8 pareggi, uno commutato in uno 0 a 2 a tavolino contro la Lazio, ed una vittoria. Nelle ultime tre uscite, è stato sempre 0 a 0. Un pianto. E’ il Napoli di un giovanissimo Ferrario. Di Caporale, Filippi, Capone. Dell’eterno Bruscolotti (lui c’e’ sempre) e di Beppe gol. Giuseppe Savoldi. Mister due miliardi. L’uomo che saltava verso le stelle. E’una partita epica. Picaresca per interpretazione. Con una sceneggiatura che pare tirata fuori da un match di campionato inglese del tempo. In campo si nuota nel fango. Con un terreno di gioco oltre ogni limite di praticabilità. Il Napoli non tira mai. E’la solita agonia cui sono abituati da Domeniche i tifosi. Stoicamente immobili sotto il diluvio. Il miracolo, perchè è un miracolo, cade al minuto ’32. Valente, l’uomo dalla testa come una zucca, e due ciuffi radi che le crescono sopra, di sterpaglia, batte un corner. Si catapulta Bruscolotti. Il capitano. La colpisce di fronte piena. La mette nell’angolo. Poi si staglia braccia sollevate sotto la “B”. Che esplode. Salta in aria come una Santabarbara. Papa’ si volge verso me, scuotendo nembi d’acqua che si sollevano dal suo bavero, dalle maniche del cappotto. Grida senza gridare. Bevendo acqua. Io gli corro alla vita e lo abbraccio. Come abbracciare uno che esca da una vasca da bagno. Ma abbiamo segnato! Abbiamo segnato! E qui, improvviso, alle nostre spalle, sale un urlo. Altissimo. Violento. Tribale. “’O ssapevo. L’aggio chiusa”! Ci voltiamo. Lo spettacolo e’ da commedia Scarpettiana. L’uomo è sotto la pioggia. Senza alcuna difesa. Le braccia allargate, sembra uno stregone che invochi le divinità. Lo sguardo verso il cielo. “L’aggio chiusa, ‘o ssapevo”! Ripete, nel suo dialetto. Ha un cappellaccio calcato sul capo, ed una busta semplice con i manici, che esibisce, brandendola. La gente lo guarda. Divertita. Mentre si acquieta l’onda di esultanza. L’uomo ha gli occhi sgranati. Lo sguardo di un folle. “Era essa! Essa. ‘A ciucciuvettola. Stammatina so asciuto ‘e quattro e mezza. L’aggio sparata. Steva llà. ‘O ssapevo. Sta ccà ovvi’. Cca’!”. La gente ride. Incurante della pioggia. Qualcuno applaude. Qualcuno urla “’E fatte buono, bravo!”. Lui, l’uomo, guarda nella busta, come ad accertarsi che la povera bestia sia ancora lì. Sorride saltellando. Felice. La partita terminerà 2 a 2. Ed al secondo gol azzurro, di Pin, l’uomo ripeterà la pantomima. Alla faccia di qualunque scongiuro. Perchè non è vero, a Napoli, ma io ci credo. Sempre.
a cura di Stefano Iaconis