«Gattuso è allenatore adattissimo per affrontare le crisi». Parola di Felice Accame, docente di teoria della comunicazione presso il settore tecnico di Coverciano, da più di trent’anni. È stato il professore Accame a consegnare il patentino di allenatore a Gattuso al termine del corso 2013-2014, «molto speciale perché vi parteciparono esclusivamente dodici campioni del mondo del 2006». Rino presentò una tesi dal titolo «Luci e ombre nel percorso di carriera dell’allenatore», relatori Accame e lo psicologo Vittorio Tubi.
Perché Gattuso scelse un docente di comunicazione e uno di psicologia? «Perché lui, che aveva giocato ad altissimi livelli, intendeva approfondire aspetti non strettamente tattici e tecnici del lavoro di allenatore. Psicologia e comunicazione sono correlate perché la seconda è un sotto-ambito della prima. Ricordo Gattuso come un ottimo allievo, umile e concentrato, sempre disposto all’apprendimento: uno di quegli studenti che un docente universitario vorrebbe sempre incontrare in aula. Fu un corso particolare, riuscimmo a stabilire con i dodici giocatori un rapporto approfondito, perché di solito a un corso partecipano in quaranta e la conoscenza è meno diretta».
E Rino che tipo era? «Pronto ad affrontare il percorso da allenatore con le caratteristiche che lo avevano contraddistinto da calciatore, dunque con la grande voglia di imparare e migliorarsi, mai pensando di sapere già tutto. Doti, appunto, che gli avevano fatto compiere il salto di qualità in campo: non era un dio della palla, eppure era riuscito a costruirsi una eccellente carriera pezzo dopo pezzo. A questa capacità di ascolto abbinava una grande attenzione agli aspetti affettivi ed emotivi, fondamentale per l’allenatore chiamato a gestire un gruppo perlomeno di 25 persone. Altra sua qualità: l’assunzione di responsabilità».
Il professore Accame, dunque, non dovrebbe essersi sorpreso per la difesa che Gattuso ha fatto di Ospina dopo l’errore del portiere che ha favorito la vittoria della Lazio? «Assolutamente no. La predisposizione a non scaricare sugli altri è correlata a una grande umiltà di base e peraltro questa è una delle prime indicazioni che do agli allenatori durante il corso: tengano sempre presente che hanno scelto loro chi va in campo e quindi è loro la responsabilità di quanto accade. Come per il regista di un film. È vero che gli staff si sono allargati sul piano gestionale e decisionale, ma l’ultima parola spetta sempre al tecnico».
Che comincia a Coverciano ad imparare come affrontare stagioni di sofferenza. «Gattuso è la persona più adatta per le crisi perché ponderato e umile e questi sono veri valori, contrari alla presupponenza che un allenatore spesso ha. Sono tanti quelli che mettono la propria carriera davanti a tutto e in questo senso orientano perfino le loro scelte. Gattuso non è così: pensa concretamente alla squadra e non a se stesso. Si viene giudicati per i risultati, certo, ma questi arrivano se in campo vi sono una logica e una convinzione collettiva».
In trent’anni quanto sono migliorati gli allenatori italiani? «Notevolmente dal punto di vista delle competenze tecniche perché anni fa questo lavoro poteva farlo chiunque dal momento che si procedeva in maniera empirica, alla buona, e un allenatore era il padrone del processo formativo, occupandosi di tutti gli aspetti, anche della preparazione atletica. Adesso in una squadra di serie A c’è uno staff composto almeno da dodici persone e il processo è funzionale. Sono cambiate le logiche perché sono cambiati i tempi: interessi e investimenti impongono analisi più raffinate. L’aspetto ancora critico è quello didattico».
In che senso? «Nella prima lezione del corso punto su questo aspetto: un conto è saper fare uno stop del pallone o un lancio, un altro è insegnarlo. È in base all’evoluzione motoria di undici uomini, anzi venticinque, che si muovono secondo un’economia complessiva, che si giudica l’allenatore. La vittoria o la sconfitta è un aspetto successivo. E peraltro in uno spogliatoio vi sono uomini dalla lingua diversa, con aspettative differenti e spesso contrastanti. Parlare a più persone e riuscire a coordinarle è la prima lezione. Parlare ai mass media è la seconda, perché gli aspetti prossemici – dal linguaggio agli sguardi, dagli spazi alle distanze – incidono nella percezione sociale di un personaggio pubblico». Fonte: Il Mattino
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