“La nostra proposta è che ci sia almeno una partita di Serie A, ogni stagione, all’estero”. Così si è espresso l’amministratore delegato della Lega Serie A, Luigi De Siervo, allo Sport&Business Summit della 24Ore Business School. Dichiarazioni che stanno facendo discutere, e ancor prima interrogare, addetti ai lavori e semplici tifosi. Il problema infatti non è solo teorico ed etico – è giusto far disputare una partita all’estero? il business può spingersi fino a tal punto? – ma è anche decisamente pratico.
L’idea infatti, che arriva dalla Spagna, è stata già bocciata da Federcalcio spagnola e FIFA. E la scorsa stagione hanno vietato lo svolgimento di Girona v Barcellona nell’Hard Rock Stadium di Miami. Il divieto imposto dalla RFEF e da Infantino si è infatti scontrato con le ambizioni della Liga, promotrice dell’iniziativa. Questa già pregustava la possibilità di aumentare i profitti derivanti dai diritti televisivi. (Le prove generali erano state fatte con la collaborazione tra Liga e la società privata Relevent Sports Group. Organizzatrice di eventi sportivi in Asia e Stati Uniti e ansiosa di nuovi investimenti nel mondo del calcio).
A guadagnarci sarebbero naturalmente i top club, in primis per risorse organizzative ma soprattutto perché, parliamoci chiaramente, a maggior ragione in Paesi sprovvisti di cultura calcistica a vendere non sarebbero certo i marchi di Lecce, Hellas Verona o anche Cagliari, bensì quelli di Juventus, Inter, Milan; non si parlasse dunque di crescita globale del “brand Serie A”, se non per la solita stucchevole teoria che i grandi trascinano tutto il movimento, anche perché la ripartizione dei nuovi diritti televisivi (per una partita l’anno) non sarebbe certo uno strumento di sostegno decisivo.
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