Fabrizio Maiello, e la sua storia: “In carcere mi chiamavano Maradona”
Fabrizio Maiello, ex calciatore, di origini napoletane ma nato nel milanese, ha parlato al sito di Gianluca Di Marzio.
La prima volta che lo hanno arrestato aveva 18 anni e si era da poco rotto i legamenti del ginocchio: “Avevo sparato alla vetrina del bar dove ci riunivamo dopo le rapine, ho chiesto un passaggio ad un ragazzo che conoscevo, uno a posto, fuori dai nostri giri. Da lì a poco ci avrebbero fermato ad un posto di blocco, per questo ho tirato fuori la mano dal finestrino sparando in aria, mi presero comunque. Fu così che scoprii la galera”.
“Il pallone era l’unica cosa che mi interessava. Non sono nato delinquente, lo sono diventato. Ero un bravo ragazzo: non bevevo, non fumavo e il sabato sera nemmeno uscivo perché la domenica mattina avevo la partita”.
Fino al giorno del suo infortunio: “Giocavo nella Primavera del Monza, a 17 anni mi sono rotto il ginocchio, da lì è cambiato tutto”.
La corsa in ospedale e le parole del medico gli hanno stravolto la vita: “’Non potrai più giocare a calcio’, mi hanno detto. Il mondo si è fatto tutto nero. Avevo bisogno di trovare qualcosa che sostituisse l’adrenalina che provavo in campo, per questo ho iniziato con la cocaina e le rapine fino a farmi rincorrere dai carabinieri rischiando la vita”.
Più di cinquanta colpi prima del primo arresto che gli ha spalancato le porte del carcere. Il talento e le origini napoletane avevano già deciso il suo soprannome dietro le sbarre: “In carcere mi chiamavano Maradona. Sono rimasto lì un anno, poi uscito ho iniziato a fare ancora peggio di prima. Avevo 21 anni quando ho preso una coltellata alla schiena da un ragazzo che fino a pochi mesi prima stava dalla mia parte. È successo mentre guidavo, colpa di alcune dinamiche tra bande. Mi avevano lasciato a morire lì, poi qualcuno deve aver chiamato l’ambulanza e mi sono svegliato in ospedale circondato da medici e forze dell’ordine. Nel 1991, poi, sono finito in un ospedale psichiatrico giudiziario per aver rotto una sedia in testa ad un giudice perché non volevo collaborare”.“